Speciale Hip Hop – Dal Bronx al mondo. Hip Hop: cinquant`anni di consapevolezza e movimento

Conoscere e agire: Hip Hop. Cinquant’anni fa, nelle strade del Bronx, USA, nasceva un genere innovativo, che nei decenni si e’ espanso in tutto il mondo, anche grazie alle nuove tecnologie e interpretando lo spirito del tempo, mutante, migrante, libero, indipendente. Dalle periferie delle grandi citta’ a quelle del mondo, l’Hip Hop e’ dilagato, fino ad assumere le connotazioni di fenomeno non solo musicale, ma di costume, e si e’ adattato alle nuove condizioni, sociali e di mercato, mutando pelle, scomponendosi in infinite tendenze, lasciando che gli artisti abbandonassero un approccio mimetico, per assumere caratteristiche originali, individuali e sempre aderenti al flow.

Anche Mescalina rende omaggio a questo importante compleanno, cercando di cogliere solo alcune delle diverse sfumature e tendenze di un genere che si e’ saputo rinnovare nel tempo. Impossibile comprenderle tutte: abbiamo quindi scelto di articolare i vari contributi, certamente non esaurienti, per costruire una road map utile per comprendere l’essenza di una musica e di un lifestyle sempre vitali.

 

A cura di Laura Bianchi e Ambrosia J. S. Imbornone,
da un’idea di Laura Bianchi

Indice

Una selezione di dischi internazionali
Alcune artiste da record e i loro numeri da capogiro
Una selezione di dischi italiani
I profili di due artisti italiani: Caparezza e Murubutu
Una selezione di articoli di Mescalina
Pareri e testimonianze di artisti di generazioni diverse
L’Hip Hopera Foundation
Una testimonianza sulla danza hip hop

Una selezione di dischi internazionali

di Emanuele D’Amato

NWA – Straight Outta Compton – 1988

Alla fine degli anni ‘80, l’hip hop aveva visto una prima ondata di successo con i suoi padri fondatori (i vari Afrika Bambaataa, Grandmaster Flash, Run-DMC, LL Cool J) e stava per arrivare una nuova era, caratterizzata dalla rottura degli schemi stabiliti nel decennio precedente. Gli NWA nascono a fine decennio a Compton, contea di Los Angeles, e sono un gruppo formato da nomi che avrebbero fatto la storia dell’hip hop negli anni ‘90: Dr. Dre, Ice Cube, MC-Ren, Eazy-E e DJ Yella. Dopo qualche uscita discografica minore, nel 1988 pubblicano Straight Outta Compton e si impongono come “World’s Most Dangerous Group”, con dei testi dai toni realistici e crudi e un immaginario visivo che racconta la violenza nelle comunità afroamericane in quegli anni. Brani come Straight Outta Compton, Fuck Tha Police o If It Ain’t Ruff raccontano la vita di strada, periferie criminali e una generazione disillusa (“I don’t give a fuck, that’s the problem”, citando un verso di Eazy-E). Il disco fa il giro degli USA e diventa un fenomeno mediatico senza precedenti. La domanda che genitori e figli in tutto il paese si pongono è “ma è realtà o è finzione?”.

Straight Outta Compton non è un album tecnico, anzi, per certi versi può risultare rudimentale; in fin dei conti il sampling avrebbe fatto passi avanti significativi di lì a poco con dischi come Paul’s Boutique, ma è interessante ascoltare questo disco come un antesignano degli anni ‘90.

 

De La Soul – 3 Feet High and Rising – 1989

Pietra miliare che ha mostrato un’alternativa al gangsta rap degli NWA, 3 Feet High and Rising si apre con The Magic Number, brano costruito su un sample preso da un episodio di Schoolhouse Rock, una serie animata per bambini della ABC, e fin dall’inizio De La Soul mostrano la loro stranezza: prendono canzoni per bambini, brani mainstream di quel periodo e molto altro, e portano il sampling fuori dai confini che si stabiliti negli anni ‘80. Mentre Straight Outta Compton faceva il giro degli USA portandosi dietro scandalo e indignazione, 3 Feet High and Rising è un disco che da subito può potenzialmente venire apprezzato da tutti, e non solo dai fan hardcore dell’hip hop. Solo qualche mese fa questo disco è comparso finalmente sulle piattaforme di streaming, a causa di decenni di lotte legali per i sample utilizzati. Ora che si può, merita di essere ascoltato.

 

Beastie Boys – Paul’s Boutique – 1989

Nel 1987 i Beastie Boys erano senza dubbio la realtà più importante mai accaduta all’hip hop. Con il loro disco Licensed to Ill avevano fatto quello che aveva fatto Elvis diversi anni prima: un gruppo di ragazzi bianchi che prende una forma della black music e la porta al mainstream. Se l’estetica di questo primo album era pienamente compatibile con l’Hair metal che passava in radio in quegli anni, con un Rick Rubin alla produzione che aveva puntato su un sound minimale che riprendesse il rock classico, con Paul’s Boutique i Boys cambiano completamente rotta. Nella loro collaborazione con i Dust Brothers, in questo album il sampling viene portato al livello successivo, fino a toccare estremi che non sarebbero mai più stati toccati. Esempio lampante dell’audacia di questo disco è The Sound Of Science, una traccia che contiene quattro sample di quattro diversi brani dei Beatles, commentato da Mike Diamond con la frase “cosa c’è di più figo di essere denunciati dai Beatles?”. Il sound di Paul’s Boutique si allontana dal rock e va verso il funk e il jazz, e i Beastie Boys, che nel disco precedente si erano raccontati come pazzi festaioli e misogini, spostano il focus dei testi su un mondo di riferimenti alla cultura pop e si concentrano su giochi di parole e di significato.

L’evoluzione del gruppo non viene tuttavia apprezzata dal grande pubblico: Paul’s Boutique non viene portato in tour e MTV non dà molto spazio ai loro videoclip. Una buona parte della critica del tempo invece capisce subito la visione dei Boys, che con questo disco hanno dato forma a tanta musica del decennio successivo (Odelay di Beck ne è un esempio).

 

A Tribe Called QuestThe Low End Theory – 1991

Considerato un caposaldo di quello che oggi si chiama “jazz rap”, The Low End Theory è il secondo album in studio di A Tribe Called Quest, trio composto da Phife Dawg, Q-Tip e Ali Shaheed Muhammad. Basta premere play e dal primo secondo della prima traccia Excursions capiamo subito perché “Low End Theory”: veniamo accolti da un sample di contrabbasso e un loop di drums che sono praticamente gli unici elementi del beat. L’intero disco gioca su produzioni minimali, costruite su sample rubati da dischi jazz di diversi decenni prima, sulle quali Q-Tip e Phife Dawg si intersecano, in alcuni brani come Check The Rhyme si scambiano come un trio di jazzisti, in altri filosofeggiano o affrontano temi sociali. In Verses from the Abstract compare Ron Carter, contrabbassista leggendario che ha suonato tra gli altri con Miles Davis, come sessionman; in Scenario invece ospite un certo Busta Rhymes, e si dice che, dopo aver sentito la sua strofa, i membri del gruppo si siano ritirati per riscrivere le loro, immagino per non sfigurare.

 

Wu-Tang Clan – Enter the Wu-Tang (36 Chambers) – 1993

Gruppo di culto, nato in una New York che stava preparando le cartucce per rispondere al gangsta rap della East Coast degli NWA, il Wu-Tang Clan è un collettivo formato da nove membri, ciascuno dei quali con una personalità straordinaria (lo dimostrano le carriere soliste di tutto rispetto di ciascuno dei membri). Enter the Wu-Tang è l’album di debutto del Clan, e ascoltare questo disco è un po’ come trovarsi al centro di un cypher senza fine, in cui un MC dopo l’altro prende la parola e ci mette tutto se stesso per tirare fuori le rime migliori sul momento. Una raccolta di brani energici, cosparsa di riferimenti e frammenti di film di kung-fu, e piena zeppa di violenza, talmente esagerata da risultare palesemente iperbolica (leggere il testo dell’intro di Method Man, per capire cosa si intende). Ogni membro ha il suo posto, la sua personalità, il suo personaggio e anche il suo modo di rappare, non è un gruppo rap in cui ogni MC ha la stessa delivery e non si capisce dove finisca uno e inizi l’altro. Non si possono poi tralasciare le strumentali, che sono il vero e proprio volto di questo album. Il produttore RZA sembra sia andato a cercare i sample di pianoforte più dissonanti che riuscisse a trovare, le batterie picchiano al punto giusto, e la parola d’ordine è “less is more”. In fin dei conti con delle personalità così a rapparci sopra, non c’era molto spazio per produzioni ingombranti. Disco assolutamente essenziale.

 

The Notorious B.I.G. – Ready To Die – 1994

Uno degli album più importanti di questo decennio, Ready To Die si apre con un’intro che ci teletrasporta immediatamente a Brooklyn, in pratica dei titoli di testa che ci raccontano la storia di Notorious fino a quel momento. Un disco il cui impatto è innegabile, che ha portato l’hip hop alla massima diffusione fino a quel momento con una formula perfetta, due singoli fortissimi, JuicyBig Poppa, che sono di fatto dei brani pop, in cui nonostante tutto Biggie rimane se stesso e non scende a compromessi, e in tutto diciannove tracce che hanno lanciato il badass hip hop nel mainstream. Notorious dipinge New York con flow, personalità e produzioni che suonano freschi ancora oggi. Da artista pop nei singoli, a MC rispettato da tutti in pezzi come Gimme the Loot, a brani che spaventano per la struggente sensibilità dei testi come Suicidal Thoughts. Ready To Die è un disco in cui c’è tutto, un testamento che non fa altro che farci pensare “se fosse vissuto ancora, chissà che cosa avrebbe potuto dire di più di questo”.

Nas – Illmatic – 1994

È il 1991 e praticamente tutta la scena hip hop newyorkese è rimasta a bocca aperta per un brano dell’album d’esordio dei Main Source. In particolare si parla molto della strofa di un certo Nas in Live at the Barbeque, tanto che alcuni dei migliori produttori di New York si uniscono per lavorare al disco solista di questo rapper emergente. Illmatic è considerato uno dei pilastri del genere: le strumentali di Q-Tip, Pete Rock, DJ Premier e altri, costituite di pochi elementi selezionati alla perfezione, accompagnano lo storytelling di Nas a partire da NY State of Mind, un ritratto della vita nelle periferie di New York tra violenza, criminalità e droga. Iconica la frase “I never sleep, ‘cause sleep is the cousin of death”, con la quale il rapper racconta il nichilismo tipico dei giovani afroamericani di quegli anni. Life’s a Bitch continua sullo stesso filone, con una base jazz-influenced che sembra invece andare da tutt’altra parte. Il miglior ritornello del disco se lo aggiudica The World Is Yours, mentre, ascoltando un brano come Represent, ci sembra di risvegliarci sui marciapiedi di una gelida New York a metà gennaio.

Non è un disco scritto per mostrarsi più fighi della West Coast, che in quegli anni stava facendo il giro degli USA, anzi, Nas dimostra, brano dopo brano, che ha davvero molto da dire, come in One Love, con un testo che sembra scritto come una lettera a un amico in prigione. Con Illmatic viene settato lo standard secondo cui ancora oggi si definisce una buona penna nell’hip hop.

Lauryn Hill – The Miseducation of Lauryn Hill – 1998

Unico album in studio di Lauryn Hill, che, nonostante il successo di questo, non ha mai voluto nemmeno provare a replicare, The Miseducation è molto più di un disco hip hop. Dopo l’esperienza con il trio Fugees, la cantautrice sente l’esigenza di scrivere una serie di brani che siano significativi per lei e che mettano insieme tutti gli universi musicali a lei affini. Sì, è vero, Hill si slancia spesso in strofe rappate, ma c’è soprattutto moltissimo Soul e R&B in questo disco, e la maggior parte delle tracce sono state registrate ai Tuff Gong Studios di Kingston costruiti da Bob Marley (ascoltare When It Hurts so Bad per sentirne l’influenza). Se le strumentali esplorano le mille sfaccettature della black music, nei suoi testi la cantante racconta l’amore, il black empowerment, affronta temi sociali e battaglie femministe. Le armonizzazioni su I Used To Love Him e Forgive Me, Father, il rap cantato in Ex-Factor e l’anima soul di Doo Wop rappresentano l’eleganza e la versatilità di Lauryn Hill nel suo momento di massimo splendore.

The Roots – Things Fall Apart 1999

Things Fall Apart è un album che da The Next Movement, con un killer groove e delle backing vocals che entrano in testa all’istante, a The Return to Innocence Lost, con la sua atmosfera surreale e la performance spoken di Ursula Rucker, è senza dubbio il lavoro più sperimentale e audace dei The Roots, band hip hop che negli anni ‘90, grazie alla presenza di strumentisti dal vivo e in studio, ha dato vita un sound inconfondibile e mai sentito prima. È un disco che ancora oggi riesce a sorprendere, nel rifiuto di seguire i canoni hip hop tradizionali: un esempio è Step Into The Realm, il cui beat, che sembra rubato dal Wu-Tang Clan, a tratti si dissolve improvvisamente, lasciando la voce di Black Thought a rappare a cappella, per poi ritornare più forte di prima. Si entra in territori catchy con Dynamite!, brano dai toni jazz rap che può fare tranquillamente concorrenza ai migliori A Tribe Called Quest; degna di nota è anche 100% Dundee, con un beat quasi interamente fatto di frammenti di voce e beatboxing, per arrivare a You Got Me, brano vincitore di un Grammy, in cui archi e arpeggi di chitarra classica avvolgono la voce di Erykah Badu e culminano in una coda che entra in territorio EDM e Drum and bass.

OutKast – Stankonia – 2000

Un duo che nella seconda metà degli anni ‘90 si è fatto notare per l’indiscutibile personalità dei due membri, Big Boi e André 3000, gli OutKast escono nel 2000 con Stankonia, un disco il cui appeal va ben oltre i confini dell’hip hop. C’è la sensibilità pop di pezzi come Ms. Jackson, l’eleganza di brani come So Fresh, So Clean, ma anche l’esplosività di Gasoline Dreams e B.O.B. È un disco pazzesco, che raccoglie uno sconfinato spettro di generi in un’era in cui non erano ancora usciti dischi come Graduation di Kanye West o Demon Days dei Gorillaz. Stankonia non è per chi vuole ascoltare il tipico album hip hop, spinge l’ascoltatore a uscire dalla propria comfort zone in quasi ogni momento della scaletta, anche gli skit, che dimostrano ancora una volta il carattere straordinario di questi due rapper.

 

Madvillain – Madvillainy – 2004

MF Doom è senza dubbio il rapper underground per antonomasia, un artista che ha pubblicato una quantità sterminata di musica con diversi nomi d’arte e che nel 2002 decide di collaborare con il produttore Madlib sotto lo pseudonimo “Madvillain”. Il risultato è Madvillainy, una raccolta di 22 tracce che non supera i cinquanta minuti di durata, e già questo lo rende un disco particolare. Non ci sono ritornelli, o pochissimi che si possano definire tali, è quasi uno stream non-stop in cui Doom ci ipnotizza con il suo flow, con la sua caratteristica pausa di un ottavo tra un verso e l’altro, e si racconta in terza persona come un supercattivo, con dei frammenti presi da film e cartoni animati che sembrano parlare di lui. Ascoltare questo album è un’esperienza incredibilmente simile alla lettura di un fumetto; molti brani raccontano episodi specifici nella storia di Madvillain, come l’incontro con una prostituta in Meat Grinder. E non si può dire che sia un disco che si prende sul serio; basti pensare alla dichiarazione d’amore nei confronti della marijuana in America’s Most Blunted. L’importanza di Madvillainy passa sia per la personalità di MF Doom, sia per il lavoro sulle strumentali di Madlib: da Accordion, caratterizzato da un sample di fisarmonica, a Curls, che, con la sua combo di vibrafono e organo, sembra ricreare l’atmosfera di una sorta di radio-dramma degli anni ‘50. Sicuramente un disco iconico, e senza dubbio un game changer nella storia del genere.

 

Kanye West – The College Dropout – 2004

Il disco con cui Kanye West è entrato in scena nel 2004, con una personalità a dir poco ingombrante, in positivo, e molte cose da dire. The College Dropout è stato uno spartiacque: i sample soul di pezzi come All Falls Down e Through the Wire, il gospel in Jesus Walks e un West che si trova in una fase della sua carriera in cui non ha bisogno di altro che essere se stesso. Nei testi Kanye racconta la propria vita, il mondo dei college, un incidente stradale di cui è vittima mentre sta lavorando al disco, il tentativo di far decollare la sua carriera da artista e produttore, in una sola parola relatable”, cioè esperienze con cui è facile empatizzare. Non è uno che viene dalla periferia o con un passato da criminale, è una persona comune, e in questo disco vuole raccontare esattamente questo: anche uno come lui ce la può fare.

 

J Dilla – Donuts – 2006

Donuts è l’ultimo disco di J Dilla (produttore che ha collaborato con A Tribe Called Quest, Erykah Badu, Common e molti altri), pubblicato appena tre giorni prima della sua morte; 29 delle sue 31 tracce sono state composte durante la permanenza al Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles per le complicazioni legate a due patologie di cui soffriva. Sono tracce immediate, dritte al punto, nessun brano supera i due minuti di durata, sembra di aprire una scatola di cioccolatini e avere a disposizione tanti assaggi diversi. È difficile definire Donuts come una semplice raccolta di brani strumentali, è forse più un piccolo viaggio dai sapori neo-soul nel mondo dell’hip hop underground.

L’influenza di questo album è testimoniata dal fatto che l’MPC 3000 usata da Dilla per produrlo è conservata oggi nel Museo nazionale di storia e cultura afroamericana a Washington. Il suo modo di suonare le ritmiche ha portato molti batteristi a cercare di imitarlo: uno di questi è Questlove, batterista dei The Roots, che ha detto che il feel alla Dilla è un po’ come suonare come “un bambino di 3 anni ubriaco”. Inutile specificare che Dilla non era un musicista nella visione classica del termine, ma aveva perfettamente in testa come voleva che suonassero le cose che faceva, e il suo approccio alla composizione e al sampling ha influenzato gran parte dell’hip hop che è venuto dopo. Ed è incredibile pensare che abbia fatto tutto questo, durante i suoi ultimi giorni di vita in una camera d’ospedale.

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Alcune artiste da record e i loro numeri da capogiro

di Ambrosia J. S. Imbornone

“Questo è un album per le donne. È un album che costruisce l’autostima. Perché è ancora un mondo dominato dagli uomini… E sento che è tempo per noi di prenderci ciò che ci spetta, stabilire i nostri limiti e obiettivi”, dichiarava Missy “Misdemeanor” Elliott a Sylvia Patterson per un articolo di “The Face” nel 1999, un’intervista a Los Angeles a proposito del suo secondo album, Da Real World.

“This is a man’s world”, cantava James Brown nel 1966, aggiungendo poi il contentino “But it wouldn’t be nothing, nothing without a woman or a girl”, ma dagli anni Novanta in poi non sono state poche le artiste che hanno raggiunto numeri da record nel campo dell’hip hop. Proprio Missy Elliott, nata nel 1971, nello stesso articolo di “The Face”, come autrice, produttrice e artista veniva definita la prima donna magnate multimediale dell’hip hop, in primis per avere il pieno controllo sul processo creativo, dal sound ai testi, dalla propria immagine alla visione generale espressa nelle sue canzoni, pubblicate dalla sua The Goldmind Inc., ma è stata definita spesso anche come la prima magnate nera della musica americana.

L’artista fondò la sua etichetta nel 1997, anno appunto del suo primo album, Supa Dupa Fly; la pubblicazione di questo primo disco arrivò dopo varie difficoltà e dopo aver ricevuto vari “no” da molte case discografiche ai tempi del gruppo R&B femminile Sista, prodotto dall’amico d’infanzia Timothy Zachery Mosley, ovvero Timbaland. Quest’ultimo sarebbe diventato uno dei più richiesti produttori nel campo dell’hip hop e dell’R&B e, superato in qualche modo il dolore e lo choc per la morte di una delle prime artiste che aveva da sempre seguito, Aaliyah (la cui More Than a Woman fu il primo singolo da lui prodotto a raggiungere le vette della classifica britannica), si sarebbe imposto anche nel mondo del pop; avrebbe lavorato infatti nel tempo, oltre che con Missy Elliott, con artisti come Destiny’s Child, Nas, Nelly Furtado, Justin Timberlake, Kanye West, Jay-Z, Madonna, il nostro Tiziano Ferro e tanti altri, contribuendo spesso in modo determinante al loro successo.

 Tornando ai suoi esordi, né Mosley, né Missy Elliott (all’anagrafe Melissa Arnette Elliott) provenivano dalle principali città legate all’hip hop nell’immaginario comune e nella storia musicale, ovvero New York e LA, né da grandi metropoli come Chicago o Atlanta, ma i due amici provenivano piuttosto dalla Virginia, che solo grazie a loro e altri artisti successivi come Pharrell Williams e il duo dei Clipse si sarebbe affermata come un’altra roccaforte dell’hip hop della East Coast. A Missy, che pure aveva capito fin dall’età di quattro anni di voler diventare una superstar, fu ripetuto più volte che non aveva speranze come solista, perché non rientrava nei canoni e negli stereotipi commerciali, in primis fisicamente, tanto che fu tentata di coltivare solo collaborazioni dietro le quinte e rinunciare all’idea di essere una frontwoman, ma grazie alla sua forza di volontà quei canoni li ha riscritti, non permettendo più a nessuno di dirle cosa dovesse fare. E anche le classifiche le hanno dato ragione: Supa Dupa Fly debuttò al terzo posto della classifica di Billboard, che allora rappresentava il miglior debutto di una rapper nelle classifiche dei dischi statunitensi. La critica acclamò quel disco, che, con ritmi allora futuristici, a detta di alcuni persino “salvò” l’hip hop (come dichiarò anche Mike D dei Beastie Boys a proposito della coppia Elliott-Timbaland), ridefinendo le sonorità, l’estetica e l’immaginario dell’America giovane e urban, sia nera che bianca. 

Il coinvolgente e convincente remix con Nas, Eve e Q-Tip di uno dei singoli del secondo album, invece, Hot Boyz (brano in cui Missy si rivolge a un ragazzo definendolo anche come “a fun toy” e precisando fin da subito che chiedeva di treat her good e non si sarebbe accontentata di niente di meno), segnò un altro record per le settimane di permanenza al primo posto sia della classifica dei brani R&B negli USA, sia nella Hot Rap Singles chart (ben 18 settimane al vertice, primato superato solo nel 2019); originariamente il pezzo prevedeva invece il featuring di Lil’ Mo.

 

 In generale si può affermare che Missy Elliott abbia dominato i dati di vendita dell’hip hop tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000, ma ha continuato a riscuotere successo anche in seguito, per quanto, dopo che le è stato diagnosticato il morbo di Basedow-Graves nel 2008, si sia concentrata più sull’attività di produttrice e sulle collaborazioni; ad es. il video del suo singolo da lead artist I’m Better con il rapper Cainon Lamb, pubblicato nel 2017, ha superato ben presto i 22 milioni di visualizzazioni e oggi ne conta oltre 41 milioni. Il brano (in cui si cantano versi come “I’m better, I’m better, I’m better / It’s another day, another chance / I wake up, I wanna dance / So as long as I got my friends / I’m better, I’m better, I’m better”) ha avuto anche un remix con la partecipazione delle rapper Eve, Lil’ Kim e Trina; l’ultimo disco di Missy Elliott è al momento l’EP Iconology, pubblicato nell’agosto 2019.

Definita da molte testate, tra cui “Billboard”, “The Guardian” e “Rolling Stone”, come la regina dell’hip hop/del rap, come sottolineato anche dallo studio di Andrea Elizabeth Shaw, The Embodiment of Disobedience: Fat Black Women’s Unruly Political Bodies nel 2006, Missy Elliott ha venduto oltre 30 milioni di dischi solo negli Stati Uniti; il dato supera i 40 milioni se consideriamo le vendite in tutto il mondo; almeno fino al 2017 era la rapper donna che avesse venduto più dischi nella storia della musica, secondo i dati Nielsen e ad es. nel 2003 era ritenuta anche la più ricca. Ha collezionato inoltre 22 nomination e 4 vittorie ai Grammy Awards, due American Music Awards, sei BET Awards (premio istituto nel 2001 dalla Black Entertainment Television per celebrare i contributi di personaggi celebri di colore nella musica, nel cinema, nello sport e nelle azioni filantropiche), un Billboard Women in Music per il contributo innovativo e molti altri premi; nel 2019 è entrata nella storia come la prima rapper donna a essere introdotta nella Songwriter Hall of Fame (ed è stata la terza rapper in generale a raggiungere questo traguardo, dopo Jay-Z e Jermaine Dupri). Nel novembre 2021 ha ottenuto la sua stella nella Hollywood Walk of Fame e nel 2023 è stata la prima artista donna hip hop a ottenere una nomination per la Rock and Rock Hall of Fame.

Come autrice e produttrice di brani e remix, ha collaborato con tantissime artiste, sia pop, come Demi Lovato e Madonna, sia ovviamente nel campo dell’hip hop e dell’R&B, come Ciara, Kelly Rowland, Janet Jackson, Whitney Houston, Mariah Carey, Faith Evans, Trina, Tweet, Monica, Mýa, con gruppi femminili come Destiny’s Child (ma poi ha collaborato anche con Beyoncé solista) e 702 (nel 1999 Where My Girls At è arrivata al quarto posto della classifica statunitense ed è stato quindi il primo suo grande successo come produttrice), con artisti reggae e techno, ecc.

Tantissimi poi i nomi che affermano di essersi ispirati a lei per vari motivi (nello stile vocale e musicale e/o nell’immagine e nei video), come Tyler, the Creator, M.I.A., Janelle Monáe, Doja Cat, Lil Wayne, Lizzo, Solange Knowles, Tierra Whack, Little Simz, Cardi B, Erica Banks e molti, molti altri ancora.

Dichiaratamente bisessuale (ma con una qualche preferenza per le donne), Missy Elliott è stata tra i primi artisti hip hop e R&B a focalizzarsi, fin dagli esordi, su tematiche come il femminismo, l’uguaglianza di genere, il pensiero body positive e sex positive, secondo cui desideri e fantasie andrebbero vissuti al di là di tabù e pregiudizi, rispettando le decisioni altrui sul proprio corpo e qualunque orientamento sessuale e identità di genere.

 L’artista è stata tra le prime a sdoganare la parola “bitch” con un’accezione positiva, come donna che sa fino in fondo quello che vuole e/o donna di successo e potente, per capovolgere l’idea che l’aggressività dovesse essere vista come audace e degna di ammirazione in un uomo e dovesse invece essere sempre oggetto di critica nelle donne: il primo singolo a essere tratto da Da Real World fu proprio She’s a Bitch, che però raggiunse solo il 90° posto della Hot 100, nonostante un video molto costoso di Harold “Hype” Williams per costumi futuristici, effetti speciali e set spettacolari, e questo in realtà sarebbe dovuto essere anche il titolo dell’album. Ribaltare il significato di alcune parole è stato anche il suo modo di andare oltre il sessismo imperante in molti testi di rapper maschi. A suo dire, se sai che certe parole non ti toccano e riguardano, non dovresti nemmeno “scaldarti” per questo, ma soprattutto l’uso di un certo tipo di linguaggio secondo Missy Elliott è spesso frutto di spavalderia, di una maschera da spacconi, perché molti artisti non rappano su cose che fanno veramente e magari nella vita sono pure ragazzi dolci. Ma Elliott la violenza reale l’ha conosciuta purtroppo in versione domestica: il padre picchiava sua madre quasi ogni giorno e la minacciava con una pistola. La Missy adolescente temeva persino di trattenersi a casa di amici per un pigiama-party: evitava di dormire fuori, per il timore di rientrare e trovare la madre morta. E le sue esperienze personali avranno influito su una delle sue tante azioni benefiche, come la creazione di un rossetto chiamato Misdemeanor nel 1999, il cui ricavato andò a Break the Cycle, un’organizzazione per le vittime di violenza domestica; proprio per ideare una pubblicità progresso per questo fondo, fu lanciato un concorso per gli spettatori del talent show The Road to Stardom with Missy Elliott del 2005. L’anno precedente Elliott promosse anche un altro rossetto, il MAC Viva Glam V, il cui 100% del ricavato fu devoluto al MAC AIDS Fund.

 Di grande ispirazione per molti artisti sono stati anche i video di Missy Elliott, che le hanno permesso di vincere otto MTV Video Music Awards; è stata anche la prima rapper donna ad aggiudicarsi il Michael Jackson Video Vanguard Award per il suo impatto generale nel panorama musicale globale, all’edizione degli MTV Video Music Awards del 2019. Nel 2020 si è piazzata inoltre al quinto posto nella classifica di “Billboard” “100 Greatest Music Video Artists of All Time”. Spesso si è sottolineato infatti come abbia inaugurato una nuova era dei video musicali, soprattutto nel campo dell’hip hop: ad es. Leah Sinclair su “Fact Mag” ha sottolineato come abbia cambiato completamente il panorama dei video hip hop, perché nessun concetto, tema o output è stato mai troppo sperimentale per lei. In particolare, tra i video che ne hanno ispirato altri c’è stato quello del suo primo singolo The Rain (Supa Dopa Fly), il primo diretto da Hype Williams, in cui Missy indossava, tra gli altri costumi, una specie di vestito gonfiabile nero con copricapo di strass; la sua tuta nera lucida si allargava in vario modo, mettendo in evidenza le sue curve, ma anche forse imprigionandole, e somigliava a un grande sacco della spazzatura, tanto che è stato interpretato spesso come una dichiarazione contro i canoni dell’industria musicale, a fronte dei rifiuti che aveva ricevuto a causa del suo aspetto fisico, ma l’artista ha affermato che piuttosto le era sembrata semplicemente un’idea divertente.

 Nel video di Hype Williams per Sock It 2 Me, si è trasformata invece in una autoironica supereroina in bianco e rosso da videogioco intergalattico, che volava nel cyberspazio; con un suo collaboratore chiave come Williams, ha cambiato per sempre il volto accettabile dell’hip hop, come si osservò sempre nel 1999 su “The Face”. In vari casi si è proposta inoltre più come un cartone animato vivente, piuttosto che con un’immagine sexy da foxy lady; interessanti sono state in tal senso alcune considerazioni di Candace McDuffie sulle pagine di Vibe nel 2017, per i vent’anni di Supa Dopa Fly, definito come una “celebrazione dell’esperienza femminile nera” e delle complessità e difficoltà che include. Nell’articolo si nota come Missy Elliott sia diventata un’icona per le ragazze che si rifiutano di aderire alle regole di una cultura che non è mai stata fatta per loro e come fin dal suo primo album sia apparso rivoluzionario il rifiuto dell’artista stessa di essere incasellata: si sottolinea infatti come abbia “cambiato il gioco del rap per le donne” e si sia collocata al di fuori delle solite categorie in cui spesso si tende a collocare le rapper, come androginia e iper-sessualizzazione. Nel secondo caso, che riguarda artiste che metterebbero al centro un’immagine più sexy e un’inclinazione più edonistica, si fanno nomi come Trina, Lil’ Kim e Nicki Minaj.

Anche Lil’ Kim (al secolo Kimberly Denise Jones), classe 1974, nata e cresciuta a Brooklyn, è considerata tra le rapper più influenti di tutti i tempi; da teenager, dopo e durante un’adolescenza difficile, fu notata da Christopher Wallace, ovvero Notorious B.I.G., che è stato una figura chiave nella sua vita personale e artistica e nel 1994, a soli 19 anni, la fece entrare nel gruppo Junior M.A.F.I.A. Da solista ha poi raggiunto ottimi numeri di vendite: fino al 2016, infatti, aveva venduto oltre 15 milioni di album e 30 milioni di singoli in tutto il mondo. Inoltre, se nell’hip hop sono frequenti i ritornelli melodici affidati ad altri artisti (si pensi, a titolo di mero esempio, al campionamento di Thank You di Dido nel singolo del 2000 Stan di Eminem, sulla storia-tipo e insieme storia-limite di un fan ossessionato da lui), non mancano anche hit con parti rappate: è il caso della rivisitazione della hit del 1974 Lady Marmalade delle Labelle per il film del 2001 Moulin Rouge!, diretto da Baz Luhrmann. La canzone, prodotta da Missy Elliott, fu reinterpretata da Christina Aguilera, Lil’ Kim, Mýa e Pink; il singolo raggiunse la prima posizione della classifica Billboard Hot 100, rimanendoci per cinque settimane: Lil’ Kim, che aveva composto i versi della sua parte rap, in cui canta, tra l’altro, “we independent women, some mistake us for whores”, fu così la prima rapper a debuttare al primo posto in quella chart statunitense. Il video, con le quattro cantanti ad esibirsi in splendidi costumi sexy, spesso vintage, sul palco del Moulin Rouge, si aggiudicò l’MTV Video Music Award come miglior video dell’anno e miglior video tratto da un film. Dal 25 dicembre 2009, data in cui è stato pubblicato in versione rimasterizzata HD, ad oggi, il videoclip ha superato i 500 milioni di visualizzazioni e oltrepassò i 100 milioni già nel 2014.

I tre singoli di Lil’ Kim Crush on You con Lil’ Cease, Not Tonight (presentata prima con il featuring di Jermaine Dupri e poi nel Ladies Night remix con Da Brat, Missy Elliott, Angie Martinez e Lisa “Left Eye” Lopes per la colonna sonora del film del 1997 Nothing to Lose) e No Time, tratti dal suo primo album da solista, Hard Core, certificato doppio disco di platino, riuscirono a raggiungere tutti e tre il primo posto, segnando un record che è stato detenuto dall’artista per parecchi anni nel campo del rap femminile statunitense. Sono stati dischi di platino anche i due dischi successivi, ovvero The Notorious K.I.M. (2000) e La bella mafia (2003), che hanno reso così Lil’ Kim l’unica rapper, insieme a Missy Elliott e poi a Nicki Minaj, ad avere almeno tre dischi diversi certificati platino.

Anche Lil’ Kim è stata spesso definita la “regina del rap”, oltre ad autodefinirsi e ad essere chiamata spesso “Queen Bee” o “Queen B”, ed è considerata anche un’icona della moda, avendo sempre “osato” con outfit molto personali e originali; è stata tra le prime rapper a proporre la sua sensualità, femminilità e sessualità in modo diverso, mentre altre artiste avevano preferito, prima di lei, fermarsi in uno spazio neutro per non misurarsi con certi tabù. Come evidenziato ad es. in un articolo di “Revolt” del 2019, non ha avuto paura di sfidare i doppi standard della musica e di mettere in evidenza il suo pensiero sex positive, né ha mai avuto il timore di risultare volgare, ma ha puntato sulla sua personalità artistica, amplificandola al di là di quelli che potevano essere i giudizi altrui. Coerente con sé stessa e leale (fin troppo) con i suoi amici, nel 2015 è stata condannata a un anno di prigione per aver mentito a una giuria sul coinvolgimento dei suoi amici in una sparatoria avvenuta quattro anni prima, ma è poi ripartita con nonchalance, incurante delle pressioni mediatiche su di lei.

Pure la rapper e modella trinidadiana-statunitense Onika Tanya Maraj, meglio nota come Nicki Minaj, nata nel 1982, è un’altra donna dei record: figlia di due cantanti gospel (ma anche di un padre alcolizzato e dipendente dal crack che aveva pure provocato l’incendio della loro casa nel 1987), sostenuta fin dagli esordi come solista da Lil Wayne, ha ottenuto con il suo primo album in studio (Pink Friday, 2010) tre dischi di platino negli States, uno in UK e uno in Australia. Il singolo Super Bass, con ritornello dance e video divertito, colorato e sexy in cui l’artista è un po’ Barbie, un po’ un cartoon ammiccante, superò i dieci milioni di copie solo negli Stati Uniti, mentre Starships, singolo che lanciò il suo secondo album Pink Friday: Roman Reloaded (2012) ha venduto più di sette milioni di copie. Per il secondo singolo tratto dal disco, Roman Holiday, mise in scena ai Grammy Awards un’esibizione controversa, inscenando una possessione del suo alter ego gay, Roman Zolanski, che un sosia del Papa cercava di fare uscire dal suo corpo: l’intento era quello di polemizzare sulla disapprovazione dell’omosessualità da parte della Chiesa cattolica.

Nel 2016 “Time” l’ha inclusa tra le 100 persone più influenti al mondo, mentre nel 2017, pubblicando i tre singoli No Frauds con Drake e Lil Wayne (che continuava un dissing con Remy Ma e aveva un video girato a Londra), la più pop e R&B Regret in Your Tears e Changed It, ancora con Lil Wayne, è riuscita a diventare l’artista donna con il maggior numero di hit nella classifica Hot 100, superando il record di 73 presenze registrato da Aretha Franklin con ben 76 canzoni diverse, come artista principale o in collaborazione con altri nomi. Ma poi Nicki ha superato sé stessa arrivando a 100 singoli piazzati nella stessa chart di Billboard; ventuno sue canzoni sono arrivate nella top 10 della stessa Hot 100, dato record per le rapper.

A 35 anni nel 2018 è diventata la rapper donna più pagata al mondo, con un patrimonio derivante dalla sua produzione musicale che era arrivato a ben 75 milioni di dollari; così Minaj ha spodestato dalla vetta delle rapper più ricche al mondo Queen Latifah (60 milioni). Fino al 2018 aveva venduto infatti 20 milioni di singoli come artista principale (60 milioni in collaborazione) e 5 milioni di album. Al terzo posto di quella classifica c’erano allora ancora Missy Elliott (50 milioni), seguita a distanza da Bahamadia (32 milioni), Lil’ Kim (18) e Sandra Denton (15).

Molto attiva anche nel campo della moda, Minaj, dopo essere stata sponsorizzata da diversi marchi, sempre nel 2018 ha cominciato anche a collaborare con Fendi.
 Nel 2022 ha vinto il Michael Jackson Video Vanguard Award agli MTV Video Music Awards e il suo singolo Super Freaky Girl è stato il primo brano di una rapper donna solista a raggiungere il primo posto della Hot 100 durante il ventunesimo secolo.
 Si è aggiudicata vari premi come cinque Mtv Video Music Awards, dodici BET Awards (tra cui sette vinti di fila, dal 2010 al 2016, per cui detiene un primato come prima e unica artista ad avere ottenuto un risultato del genere nella storia della manifestazione), quattro Billboard Music Awards e tanti altri riconoscimenti, che hanno consentito anche a lei di essere definita a volte come la regina del rap.

Anche la più giovane Cardi B (pseudonimo di Belcalis Marlenis Almánzar), classe 1992, ha ottenuto un grande successo negli ultimi anni: figlia di un dominicano e di una trinidadiana, cresciuta nel South Bronx, dopo esser sfuggita alla povertà e ad alcune violenze lavorando anche come ballerina in uno strip club per potersi pagare gli studi, si è fatta notare con i suoi video su Vine e Instagram e ha poi partecipato nel 2015 al reality VH1 Love & Hip Hop: New York, nella sesta e settima stagione, che l’hanno seguita nella sua ascesa e in una relazione turbolenta con un fidanzato in carcere. Il suo primo album in studio, Invasion of Privacy (2018) si è subito piazzato al primo posto nella classifica Billboard 200 e le ha consentito di diventare la prima donna a vincere un Grammy Award per il miglior album rap di un artista solista. Con il quarto singolo tratto dal disco, il brano latin-trap I Like It (con il portoricano Bad Bunny e il colombiano J Balvin), che mescola trap e salsa e comprende anche un campionamento di I Like It Like That di Pete Rodriguez, è diventata la rapper donna con il più alto numero di canzoni al primo posto della Hot 100. È un primato che lei stessa ha battuto con i singoli più recenti, tra cui WAP con Megan Thee Stallion (brano con testo sessualmente molto esplicito che Brianna Holt di “Complex” ha addirittura salutato come “epitome dell’emancipazione femminile”), arrivando al record di aver avuto cinque canzoni in vetta alle classifiche USA. È anche la prima e unica rapper ad avere avuto finora in contemporanea anche più canzoni al primo posto della Billboard Hot 100.

Una curiosità: della hit hot WAP esiste anche un remix italiano, ABC di Lucky Luciana.

Invasion of Privacy di Cardi B è diventato il disco di maggior successo di un’artista rap nel decennio, con tracce che sono state tutte certificate almeno platino dalla RIAA, quando non diamante, come nel caso Bodak Yellow, con cui è stata la prima rapper donna a raggiungere questo traguardo, e I Like It. Nel 2018 è stata inserita anche lei tra i 100 personaggi più importanti del mondo, mentre nel 2020 è stata incoronata Woman of the Year da Billboard. Ha vinto 14 BET Hip Hop Awards, sei Billboard Music Awards e vari altri premi.

Abbiamo fatto riferimento a vari brani “collettivi” con più artiste coinvolte, ma queste “regine” sono andate sempre d’accordo? Non sempre: Nicki Minaj e Lil’ Kim si sono punzecchiate per anni, tanto che il singolo Stupid Hoe della prima sembrò decisamente dedicato alla seconda. Cardi B si è scontrata invece proprio fisicamente con Nicki Minaj, scagliandole contro una sua scarpa con tacco alto a un after party della settimana della moda di NY nel 2018. La ragione della lite sarebbero stati alcuni “mi piace” di Minaj a commenti che sui social mettevano in discussione la capacità di Cardi B di occuparsi della figlia appena nata; Nicki Minaj ha respinto le accuse, accusando invece la collega di cyberbullismo in un “vivace” scambio di opinioni su Instagram nel 2014. Ma a volte lo showbiz e il volto più “mainstream” dell’hip hop a volte è anche questo…

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Una selezione di dischi italiani
di Antonio Corcillo

Frankie Hi-Ngr McVerba manent – 1993

Il primo a produrre un album rap interamente in lingua italiana è stato Frankie Hi-Nrg Mc nel 1993 con Verba Manent. Pur essendo un disco nato agli albori di questo movimento, si possono identificare alcuni tratti distintivi; per esempio, Faccio la mia cosa importa la capacità dell’Hip hop di intersecare le culture di ogni Paese, sempre mantenendo fissi i propri stilemi. Se Libri di sangue è in grado di attraversare numerosi argomenti, mostrando il livello culturale dell’autore, Disconnetti il potere rappresenta una dichiarazione di guerra contro la manipolazione mediatica. Una delle tracce che lasciano il segno è Potere alla parola, in cui l’uso di metriche differenti in un ritmo incessante la fa sembrare un rito magico. Vi è anche spazio per la denuncia sociale con Fight da faida, che affronta il tema della criminalità organizzata, che in quegli anni imperversava nella Penisola, mentre Etna racconta l’immigrazione. Si presenta come un album vario, in cui gli scratch di Dj Stile si alternano ai beat in studio.

Articolo 31 – Domani smetto – 2002

Uno dei gruppi iconici del rap nostrano sono gli Articolo 31, che nel 2002 hanno pubblicato un album che ha portato a conoscere il genere a tutti: Domani smetto. Già nella title track troviamo argomenti cardine della loro narrazione, come ribellarsi alle regole imposte dalla società, e inoltre c’è un piccolo dissing con l’allora Ministro dell’Istruzione Letizia Moratti. Si passa da criticare l’esagerata importanza data al denaro in SoldiSoldiSoldi alla goliardia maschile allo stato puro con Pere; se J-ax ci mette la voce, è DJ Jad che fornisce le basi. Un altro pezzo entrato in tutte le radio è Gente che spera, un invito a coltivare la speranza e rialzarsi, nonostante tutte le difficoltà che si possono incontrare. A chiudere il tutto c’è L’ultima bomba in città, dall’atmosfera rock, che narra la storia di un errore durante un rapporto sessuale; così nasce un bambino, che vorrà un posto nel mondo. Il disco è stato un successo, perché si è concesso al jazz e punk, ma risulta fedele ai canoni del rap.

Rancore – Musica per bambini2018

Per la maggior parte degli ascoltatori superficiali il rap è solo una serie di insulti, parolacce e frasi d’amore, ma Musica per bambini, quarto album del rapper romano Rancore, pubblicato nel 2018, non ha nulla a che fare con questi schemi; vi invito inoltre a diffidare dal titolo, perché i testi non sono alla portata di tutti.

Se in Underman mostra tutte le proprie fragilità del sentirsi sottovalutato, in Giocattoli dà voce a tre oggetti che una ragazza usa nel corso della sua vita: un pupazzo, un rossetto ed una sigaretta. Sangue di drago è una metafora del potere, partendo dal racconto delle favole dove il principe deve salvare la principessa dal drago; qui entra in gioco un cavaliere oscuro, che lo trasforma nella creatura antagonista uccidendolo. L’obiettivo non è il bene, ma berne il sangue per il potere. In Arlecchino parla del nostro Paese, che non riesce a fare ciò che fanno gli altri, sembrando incapace, mentre, con Quando fuori piove, termina un percorso simbolico basato sull’esigenza di raccontarsi.

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I profili di due artisti italiani: Caparezza e Murubutu

Caparezza
di Ambrosia J. S. Imbornone

Appassionato di fumetti e cartoon e intenzionato un tempo a diventare art director, Michele Salvemini (nato a Molfetta, BA, nel 1973), si avvicina alla musica fin da ragazzino, con il nome di Mic Salvè. Partecipa a Castrocaro e Sanremo Giovani 1997 come Mikimix (periodo poi rievocato, al pari della stessa scoperta della musica, nella canzone del 2021 Campione dei Novanta: E sono andato a Sanremo / Quando rappare a Sanremo aveva l’effetto di un sacrilegio / Io che non ero la star di pregio / Ma lo sfigato che stava in major”) e con un hip hop molto commerciale, da cui presto prende le distanze, alla ricerca di una strada più personale. E la trova con un nuovo moniker, che in dialetto molfettese significa “testa riccia”. Il successo arriva nel 2003, vent’anni fa, con Verità supposte, registrato con la sua band e prodotto da Carlo U. Rossi; la sua Fuori dal tunnel diventa un tormentone, sigla del programma TV “Zelig”, ma anche fraintesa hit per i discotecari irrisi nel testo. Estimatore di Frankie Hi-Nrg MC e di Vinicio Capossela, con un’immagine che ricorda vagamente quella del suo mito Frank Zappa, Caparezza oltrepassa le barriere dei generi musicali, contaminando l’hip hop con generi come il rock, il pop, l’elettronica, il reggae e il drum’n’bass e compiendo talora incursioni divertite in altri campi dal tango ad atmosfera da spaghetti western. L’importanza data alle parole e la varietà dei temi affrontati, molto lontani dai cliché dell’hip hop e alieni al sentimentalismo, lo avvicinano anche al cantautorato: così nel 2014 il suo Museica si aggiudica anche una Targa Tenco per il miglior album, spianando la strada all’hip hop, che avrebbe portato anche alla vittoria di Marracash nel 2022 con il disco Noi, loro, gli altri.

Tra scioglilingua irriverenti e surreali, beat accattivanti, rime divertenti, rimandi ad arte (v. il già citato Museica con canzoni ispirate ad opere che spaziano da Giotto a Fontana, da Pellizza da Volpedo a Modigliani), letteratura (da Leopardi a Verga, da Boito a Dante, da Shakespeare a Dino Campana), filosofia, scienza, storia e soprattutto al cinema, giochi di parole azzeccati e inseriti in un flow convincente, Caparezza ha affrontato nel tempo molte tematiche come la xenofobia, la tv spazzatura, le follie guerrafondaie e fratricide, la promozione turistica della Puglia, contrapposta ai problemi della sua terra (dalla “diossina dell’ILVA” ai “veleni dell’ENI”, dal caporalato alle morti bianche e alla criminalità), o la malinconia di chi è costretto a emigrare dall’Italia-Malincònia.

Ancora la sua ironia ha colpito ad esempio quanti non si recano più alle urne, ma televotano i concorrenti dei reality, i “TG delle menzogne” manipolati dai partiti, chi vuole diventare “qualcuno” beandosi della propria ignoranza e del proprio qualunquismo, le accuse di “eresia” che nella storia hanno cercato di mandare “in cenere la verità”, le moderne teorie apocalittiche, o la “legge della cifra”, che ha portato a privilegiare i numeri delle visualizzazioni e degli ascolti in streaming rispetto alla vendita di CD e 33 giri.

Quella di Caparezza non è solo satira, ma a volte l’artista pugliese ha usato anche toni accesi e vibranti, indignati (v. la drammatica e feroce critica alla classe politica contenuta in Non siete Stato voi, che l’artista ha definito una canzone “di Michele Salvemini” e non di Caparezza) o “epici” e commoventi, come la storia di un eroe quotidiano-operaio contenuta in Eroe (Storia di Luigi delle Bicocche), e talora ha toccato anche argomenti più personali, dialogando per esempio con le insicurezze e la timidezza del sé stesso giovane in La chiave (Il colloquio – Aprirsi o chiudersi), o affrontando il tormento dell’acufene in Larsen (La tortura – Perdono o punizione), brano contenuto, come il precedente, in Prisoner 709 (2017).

 Caparezza non ha solo usato le sue canzoni per le sue “battaglie” personali, ma è stato anche impegnato in azioni concrete come una raccolta fondi per gli avvocati del G8, ha sostenuto la comunità San Benedetto di don Gallo, ha partecipato a incontri nelle carceri e collaborato con varie associazioni umanitarie e ambientaliste. Ma, attenzione, rifugge dalla trappola e dai limiti della definizione di “artista impegnato”, così come dal lato patinato dello star-system: “Snobbo le firme perché faccio musica, non défilé (ti farà stare bene) / Sono l’evaso dal ruolo ingabbiato di artista engagé (ti farà stare bene)”, canta in Ti fa stare bene (L’ora d’aria – Frivolo o impegnato), ancora in Prisoner 709.

Tra le sue collaborazioni, ricordiamo ad esempio quelle con Bisca, Alborosie, Tony Hadley, Après La Classe, Murubutu, Piotta, i Two Fingerz, Big Fish, i 99 Posse, Il Teatro degli Orrori, Daniele Silvestri, John De Leo, Max Gazzè, DMC, Mondo Marcio, Roy Paci & Aretuska, ecc.


 

Murubutu
di Laura Bianchi

Murubutu, alias Alessio Mariani, è una delle realtà più significative e originali della scena rap e hip hop italiana. 47 anni, professore di storia e filosofia a Reggio Emilia, ex ragazzo delle posse, alterna le lezioni in un liceo cittadino ai concerti in giro per tutta Italia. Ma nessun professore smette davvero di esserlo, se ha scelto la propria professione con passione: così, il percorso di Murubutu (deriva dal termine Marabutto, che, secondo Jules Verne, in alcune regioni dell’Africa sub-sahariana e settentrionale, indica una figura dai poteri taumaturgici) si è fatto di disco in disco più completo, maturo, a metà fra lo storytelling e l’hip hop, fino a coniare una definizione originale: rap narrativo, o rap_conto.

Murubutu negli anni ‘90 è un protagonista della scena hip hop reggiana, tanto da fondare il primo gruppo hip hop della città: La Kattiveria; successivamente inizia a elaborare un rap che possa trasmettere contenuti culturali, pur con una veste contemporanea, il rap didattico, come dimostra il lavoro del 2006 Dove vola l’avvoltoio, ricco di virtuosismi tecnici, flow e combinazioni di rime che riguardano tematiche insolite per l’hip hop, dalle strutture grammaticali alla biologia. Si intuisce così la direzione che il giovane Mariani (per prendere ispirazione dal titolo di un album del 2009) intende imprimere al suo percorso. Lentamente, nei lavori seguenti, le sonorità hip hop si incastonano sempre più in testi dallo spiccato intento narrativo, vicino alle ispirazioni dei grandi cantautori, e dalla cura formale per il fonosimbolismo, che Murubutu rivela soprattutto nella dimensione live, nella quale si lancia in funamboliche barre a tutta velocità, sostenuto dal ritmo della sua crew.

L’impegno sociale, che caratterizza il migliore hip hop, è presente anche nella sua produzione, che nel tempo si è arricchita di figure di spicco come James Logan, Gian Flores, XxX Fila e Red Sinapsy, Dj FastCut, Dj Caster, Inoki, Mattak, En?gma, Moder, Il Tenente, West, Kuma e altri: brani come Anna e Marzio, La collina dei pioppi, Sull’Atlantico, Le stesse pietre, e molti altri, propongono tematiche difficili e impegnative, come la malattia mentale, la Resistenza, l’emigrazione, la guerra, mentre l’amalgama di beat, flow e testo sottolineano l’estrema cura compositiva e l’urgenza dell’impegno.

La cultura può salvare: e i progetti più recenti lo testimoniano, come INFERNVM, dedicato alla prima cantica dantesca e interamente scritto in terzine come la Commedia, in cui Murubutu scrive i testi, densi di rimandi all’opera, sempre rivisitati e attualizzati, mentre Claver Gold si occupa delle sonorità; oppure come il più recente Storie d’amore con pioggia e altri racconti di rovesci e temporali, un disco ambizioso, che vede la collaborazione di Rancore e che mescola suggestioni di varia origine, per parlare di tempo atmosferico e cronologico, ma anche di metaverso e di quello che i Greci chiamavano Kairos, ossia, il tempo opportuno per crescere, vivere e migliorarsi. Murubutu affronta sempre nuove sfide, cercando l’aiuto di altri artisti: ne sono prove anche i live che ospitano dei live paintings di Roby il Pettirosso, oppure il libro Dante a tempo di rap, con il contributo del docente universitario di Letteratura italiana Patrick Cherif, e le illustrazioni di Roby il pettirosso, o ancora il concorso che dal libro prende spunto, che ha proposto agli studenti di scrivere in chiave rap un episodio della Commedia, in occasione del Dantedì 2022.

Non conosci ancora Murubutu? Ti proponiamo una breve playlist video:

 

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Una selezione di articoli di Mescalina

Caparezza – Epocalisse: capologia da ?! al caos (2011)
Piotta – Odio gli indifferenti (2012)
Eminem – The Marshall Mathers LP2 (2013)
Ice One – B-boy maniaco (2014)
Piotta – Nemici (2015)
Intervista a Ghemon – Il rapper 2.0 (2015)
Murubutu – L’uomo che viaggiava nel vento e altri racconti di brezze e correnti (2016)
Coez – Faccio un casino (2017)
Willie Peyote – Sindrome di Tôret (2017)
Miss Fritty – Montegobari (2019)
Live Murubutu del 07/03/2019
Live Rancore del 05/04/2019 
‘a67 – Naples calling (2020)
Ernia – Io non ho paura (2020)
Ghali – DNA (2020)
Claver Gold & Murubutu – INFERNVM (2020)
Murubutu e Roby il Pettirosso – Intervista a due voci (2020)
M¥SS KETA – Il cielo non è un limite (2020)
L’Eden di Rancore è solo un codice (2020)
Entics – Authentics (2021)
M¥SS KETA – Il cielo non è un limite – lato b (2021)
Moder – Acrobati (2021)
Willie Peyote – Analisi del testo di Mai dire mai (La Locura) (2021)
SHAME – Chi ci ucciderà (2021)
Assalti Frontali – Courage (2022)
Claver Gold – Questo non e’ un cane (2022)
Intervista a Kabo – Due nuovi singoli per KABO (2022)
Murubutu – Storie d’amore con pioggia e altri racconti di rovesci e temporali (2022)
Pioggia, rovesci, temporali, musica e vita: pensieri e parole col professor Murubutu (2022)
Otto domande a Willie Peyote, fra rap e stand up comedy (2022)
Intervista a Psiker – Il rapper finance manager (2022)
Rancore – Xenoverso (2022)
Junior Cally – Deviazioni (2023)
Nesli – NESLIVING VOL. 4 – Il Seme Cattivo (2023)

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Pareri e testimonianze di artisti di generazioni diverse

Ballo e Kime

Fin da giovanissimi abbiamo respirato l’atmosfera dell’ambiente Hip Hop della nostra città. Bologna, del resto, è sempre stata una piazza importante e viva per tutte le correnti musicali alternative. Dalle serate dei centri sociali, alle jam, ai locali, ha sempre offerto la possibilità di godere dei concerti dei più grandi nomi del rap e dell’Hip Hop italiano. Siamo sempre stati molto fieri di questa tradizione e abbiamo sempre cercato di omaggiare la nostra città che ha, così, ispirato quella che è presto divenuta la nostra più grande passione. L’Hip Hop, per noi, ha sempre rappresentato una dimensione di libertà attraverso la quale esprimerci: ricordiamo ancora le giornate, durante le superiori, passate in zona Barca, sotto il tunnel della Balena o in qualche parco, tra bombolette, stereo portatili e gare di freestyle. Proprio da questo ambiente siamo partiti con i nostri primi progetti musicali. Da qualche anno, dopo i nostri primi esperimenti, abbiamo cominciato a sentirci veramente parte della nuova scena di Bologna, infatti, rinnovando il sodalizio artistico tra di noi, abbiamo realizzato il nostro ultimo EP decidendo di intitolare uno dei brani al suo interno Bolocrazia. Grazie al producer e sound designer bolognese Fato W, che ha curato mix e mastering del nostro progetto, siamo connessi con Chandelier Music, un’etichetta discografica e polo artistico multidisciplinare milanese molto attivo nella scena urban. Abbiamo sempre seguíto assiduamente tutti i mutamenti del genere Rap e Hip Hop durante gli ultimi anni; la nostra scuola, tuttavia, rimane quella del realrap: prediligiamo i contenuti alla confezione. Per questo la cultura Hip Hop, per noi,  rimane sempre il miglior canale per esprimere il nostro punto di vista sulla realtà.

Barry Convex

Roma. Metà anni 90. Scritte ovunque. Gor, John, Joe, Sugo, Hekto, Panda, Gel, Pane, Nico, etc….Tutto d’un colpo in città erano comparsi dei supereroi che combattevano chissà quali battaglie, chissà contro chi, armati solo di marker, bombolette e punte di diamante.

Quei nomi erano spuntati dal nulla in mezzo alle scritte politiche, e piano piano se le erano mangiate. Forse i vari Gor e compagnia bella erano dei compagni che lottavano contro il sistema. O forse erano solo dei cani sciolti che volevano scrivere il proprio nome in giro: bello, in grande, dove tutti lo avrebbero potuto vedere meglio degli altri. Dopo un po’ queste scritte le iniziai a vedere anche da me, fuori città. Koma II – che poi diventò Weird e poi Benzo, NoOne, Foul, Noise Slang, Howen, Cubic, Snake, LDC… I muri non erano più territorio esclusivo del Fronte Rosso, del FUAN, o di qualche propaggine delle BR. Ancora non lo sapevo, ma alcuni di questi li conoscevo già perché erano miei vecchi amici d’infanzia, che nel frattempo erano diventati writer. E fu così che un pomeriggio mi trovai a casa del Benzo che nel frattempo aveva rimediato Odio pieno del Colle Der Fomento. Aveva uno stereo a cui si attaccava un microfono.  –  Guarda  –  mi disse, e iniziò a rappare sopra L’Attacco dei Funkadelici 4. In verità il Colle me lo aveva fatto ascoltare qualche mese prima Kor BN di Milano, ma fu da Benzo che mi dissi: – Ehi, questa cosa la voglio fare anche io. A disegnare sono una pippa, ma magari col rap me la posso cavare –.

Il mio viaggio nell’hip hop iniziò lì. Cose da raccontare, amore per l’evoluzione dello stile, rispetto per chi c’è da prima, libertà. Per me è ancora così.

Brensi

“L’Hip hop mi ha salvato la vita”: è la solita frase che sentiamo dire, ma che spesso rispecchia la verità.

Pensare che questo genere sia già arrivato a 50 anni di attività dalla sua nascita fa riflettere su quanto sia potente e virale, perché anche di questo si parla. È il genere più attivo e allo stesso tempo anche il più “vecchio”, quasi più del rock, ed è anche l’unico genere che ha generato non solo artisti e cantanti (MC’s), ma anche DJ di livello, ballerini e performer di ogni tipo e spessore, writer (tra cui i migliori ora lavorano con brand e aziende multinazionali), speaker radiofonici ecc.

Non esiste altro stile musicale con questa forza e questa versatilità che riesca a inglobare ed assorbire qualsiasi genere dentro di sé, trovando però sempre una dimensione tutta sua.

Dai primi anni ’70 di cose ne sono cambiate e il genere è mutato adattandosi alle sonorità di spicco dei vari periodi, mantenendo sempre però una matrice comune: l’attitudine.

Da Dj Kool Herc fino a Drake questo movimento ha rappresentato tutti i giovani di strada e non, salvando appunto parecchie vite da situazioni non proprio tranquille e delicate (me compreso).

Cris Tyler

Scopro l’Hip Hop nel 2002 quando in Italia si inizia a sentire ripetutamente un brano arrivato dagli USA, titolo Without Me, di un certo Marshall Mathers, per gli amici Eminem, ed è stato subito amore a primo ascolto.

Da lì compro l’album in cui quel brano era contenuto (The Eminem Show) e inizio ad informarmi meglio sul genere, sull’origine, sulle particolarità e quindi sugli artisti che in quegli anni e in quelli passati sono stati i capisaldi del rap.

A livello puramente musicale, ho sempre preferito la scena americana degli anni 2000, non c’era proprio paragone, il problema è che faticavo a comprendere a pieno tutti i testi e siccome nell’Hip Hop ciò che veramente sono di un altro livello sono i testi, ho iniziato ad affacciarmi anche alla scena italiana, che nel frattempo aveva iniziato a svilupparsi a macchia d’olio in tutto lo stivale.

Quando mi chiedono cosa mi piace di questo genere, io rispondo sempre la solita cosa: non sempre mi piace cosa viene detto nei testi, ma amo il modo in cui vengono espressi i concetti, in maniera diretta, senza freni, con fiumi di similitudini e citazioni d’autore.

Questo è quello che mi ha da sempre impressionato e fatto innamorare dell’Hip Hop, tanto da spingermi nel 2007 a cimentarmi con questo fantastico genere musicale che chiaramente, come ogni cosa, negli anni ha subito numerose modifiche ed influenze, sia sulla produzione delle strumentali che sui testi.

Se guardo indietro al periodo in cui ho scoperto l’Hip Hop, sembrano passati più di 21 anni per come si è evoluta la musica Rap, anche perchè quel tipo di Hip Hop non lo fa quasi più nessuno ormai, figurati se penso che siamo arrivati al cinquantesimo della sua nascita!

Tanti auguri Hip Hop e grazie di esistere!

 

DJ Fede

Mi sono avvicinato all’Hip Hop nella prima metà degli anni ‘90. Da subito il rap è stato il mio approccio con la musica.  Nel giro di poco, per quanto fosse possibile in quegli anni, ho approfondito anche le altre discipline che sono parte di questa cultura. Nei primi anni ovviamente il lavoro di ricerca e di comprensione è stato molto intenso, l’assenza di internet e le info frammentate non aiutavano. Sicuramente magazine come l’italiano “Aelle” e l’americano “The Source” hanno fatto la loro parte nella mia formazione. Nonostante sia stato affascinato da tutte le discipline, quella che ho scelto di perseguire è quella legata alla produzione e al lavoro da Dj.  Vedere ballare le persone, dipingere e improvvisare al microfono hanno sempre attirato la mia attenzione e mi hanno sempre lasciato entusiasta nel vederle e viverle. Negli anni si è un po’ andata a perdere la cultura nel suo insieme: spero che questo obbiettivo del cinquantesimo anniversario possa attirare l’attenzione di curiosi e potenziali futuri appassionati. Credo che qualcosa che aggrega, che crea una sana competizione e che dia ad ognuno la possibilità di scegliere come esprimersi e migliorarsi con le varie discipline, in base alla propria attitudine, sia qualcosa di molto più che positivo e che, tra alti e bassi, non possa che avere una lunghissima vita davanti.

 

Dunkan

Vedo l’Hip Hop come un movimento artistico musicale e culturale che sta vivendo ora, in Italia, il suo picco di popolarità. Penso verrà studiato esattamente come abbiamo studiato il Romanticismo con Franz Schubert o il Futurismo con Stravinskij. La differenza è che la maggior parte di noi ha vissuto e sta vivendo l’evolversi dell’Hip Hop: nessuno si sarebbe mai immaginato che a partire da un DJ Set di Afrika Bambaataa si potesse arrivare al genere musicale più ascoltato al mondo. Quando avevo 8 anni mia madre mi regalò Get Rich Or Die Tryin’ di 50 Cent: non sapendo cosa regalarmi, chiese al ragazzo di un negozio un CD di musica rap, perché “Mio figlio ascolta molto quel genere, ma io non lo conosco”. Faccio parte della generazione di bambini americani che sono nati nella cultura Hip Hop e che l’hanno ritrovata ovunque: in radio, negli stereo, nell’arte, nel cinema, nella moda…Quando la mia famiglia si è trasferita in Italia, non esisteva una vera e propria cultura Hip Hop qui. Ho cominciato a scrivere testi scoprendo pionieri come i Sangue Misto, le Sacre Scuole, gli Uomini di Mare. Ho visto con i miei occhi lo sviluppo di questa corrente fino ad oggi con i conseguenti cambiamenti: dai piccoli locali frequentati da una nicchia, alla grande popolarità del genere con i grandi eventi ed i primi grandi cachet per gli artisti. L’hip hop non è solo un genere musicale, ma una corrente artistica importante, di cui mi sento di fare parte. Personalmente penso che la sua popolarità sia ancora in continua crescita.

K-ANT

  L’hip hop non è solo un movimento culturale, è un modo di essere, di vivere. Il mio primo approccio è della metà degli anni ‘90. Non sono mai stato uno troppo fissato con le 4 discipline (ndr: MCing, DJing, writing in arte e B-boying o Breakdance), essendo la mia musica influenzata da vari generi. Ricordo che alle medie mi capitò tra le mani una cassetta degli Articolo 31, Così com’è, e da lì per me è partito tutto. Ho iniziato ad avvicinarmi a questo mondo, guardavo sbalordito chi faceva break dance, i writers, i murales, le rime, la beat box. E poi il rap…Me ne innamorai subito. La metrica, l’incastro delle rime e le parole, il flow. Mi emoziona sempre, e ancora non so spiegarmi come ci riesco. Tante cose sono diverse oggi, è cambiato molto questo mondo e lo vedo parecchio “imbastardito”. Qualcuno diceva che in Italia si è cercato di entrare nel ghetto, anziché volerne uscire, scimmiottando ciò che arrivava dagli States, e in alcuni casi (anche più recenti) mi trova d’accordo. Per me è stato qualcosa che ha condizionato molto la mia vita, che mi ha fatto fare determinate scelte, e mi ha permesso di incontrare persone che difficilmente avrei potuto incontrare. Ha rafforzato la mia visione del rispetto reciproco, che è sempre stato un mio principio. E a non arrendermi mai, a vivermi anziché lasciarmi vivere dagli eventi. Le storie raccontate nei brani sono cambiate in 50 anni, ma di fondo c’è quella voglia di rivalsa, di poter dire al mondo “Ehi, ci sono anch’io”, e farlo con tutta la forza possibile, provando ad annullare ciò che il proprio contesto sociale spesso non permette di avere: una possibilità.

Kabo

Cos’è l’hip hop per me?

Per me l’hip hop è essenzialmente una visione del mondo, che si declina tramite le 4 discipline. Io, affascinato dalla musica e dalla scrittura fin da ragazzino, scelsi il rap. Nel corso degli anni mi sono reso conto di aver effettuato un’indagine psicologica su di me, tramite lo strumento della scrittura. Questo è un mezzo che aiuta a conoscersi profondamente, donando estrema libertà ma allo stesso tempo chiedendo in cambio il rispetto di regole e idee che caratterizzano e alimentano questo fuoco fin dalle origini. La cultura HH, nel mio specifico caso il rap, è una perfetta metafora della vita. Una vita autogestita, strutturata in maniera orizzontale, anarchica, che funziona alla perfezione. Se devo pensare a cosa mi ha donato l’hip hop in questi anni, la risposta mi viene facile. Mi regalato la possibilità di conoscere realmente Andrea, cioè me stesso. In bene e in male, con virtù e debolezze. Questo è l’aspetto più grande, a cui è davvero impossibile dare un prezzo.

Kento

Fa un certo effetto pensare che l’Hip hop abbia cinquant’anni. Se fosse una persona, avrebbe qualche capello bianco. Se fosse un atleta, si sarebbe già ritirato dallo sport professionistico. Se invece fosse un allenatore o un filosofo, sarebbe magari ancora nella fase ascendente della sua parabola. Ma l’Hip hop non è un essere umano, certo. O meglio: è umano in quanto lo siamo noi che proviamo ogni giorno, con infiniti errori e difetti, ad essere le sue gambe, la sua testa, la sua voce. E a fare in modo che lui (meglio: lei, perché è una cultura) sia la voce nostra.

Almeno tre quarti dei rapper italiani che ci sono in classifica oggi non hanno la minima idea di che cosa sia successo al 1520 di Sedgwick Avenue, e non lo dico con risentimento o con tono d’accusa, ma semplicemente con lo sguardo di chi constata i fatti. Non mi meraviglia nemmeno: se (a differenza mia) ne capite qualcosa di rock, magari mi potreste dire che è normalissimo, che la stessa cosa vale per ogni genere, che chi suona una chitarra elettrica in top ten spesso non sa niente di Chuck Berry, chissà.

Il mio punto è un altro. Il mio punto è che chi si perde la conoscenza, anche sommaria, di questi cinquant’anni si perde una storia fantastica, terribile e bellissima. Una storia che si incrocia con la Storia con la S maiuscola, e che meglio di ogni altra vicenda ci racconta nel bene e nel male il mondo che ci è stato consegnato e che un domani consegneremo alle generazioni future. Dal Bronx a ogni angolo del Pianeta, dagli scantinati alla cima delle classifiche, dalle pareti dei vagoni a quelle dei musei. Dal niente al tutto, che però a volte è solo un altro niente, solo confezionato un po’ meglio.

Per festeggiare il compleanno dell’Hip hop non metterò sul giradischi un vinile classico, quello sicuramente lo faranno in tanti quel giorno. Quello che farò sarà tendere l’orecchio alla strada, al carcere, alla comunità di recupero dove vivono tanti di quei ragazzi che la nostra cultura ha salvato… e mi metterò ad ascoltare.

Dopo cinquant’anni, sono sicuro che quella voce si alzerà ancora più forte: Her Infinite Power Helping Oppressed People: H.I.P.H.O.P.

Tanti auguri, e altri mille di questi giorni.

Miss Fritty

L’Hip Hop è sempre stato il mio primo amore. Infatti, faccio parte di quella categoria di persone che classifica ancora l’hip hop come controcultura, anche se totalmente a favore dell’evoluzione. È stato affascinante e misterioso per me, quando mi sono avvicinata alla cultura hip hop nei primi anni duemila non c’era Spotify, non c’era YouTube o altre risorse per ascoltare o scoprire nuova musica. Era una vera e propria caccia al tesoro nei pochi negozi di dischi o sulle piattaforme pirata (purtroppo, allora era l’unico modo di avere accesso a un vasto catalogo musicale). Era difficile ottenere strumentali, se non avevi singoli con le strumentali nel lato B. Quindi, spesso mi trovavo a rappare su pezzi già cantati o a scrivere con base su canzoni che già conoscevo. Era una sfida quotidiana.

Ora, invece, accedere alla musica è molto più semplice e, come tutte le cose semplici, si tende a darle per scontate. Amo l’hip hop moderno, ma mi dispiace per chi si avvicina alla cultura hip hop solo oggi e non ha avuto quella percezione di rarità che rendeva il rap ancora più attraente in passato. Infatti, ora tutto è a disposizione ed è tutto più semplice, anche cominciare e anche scrivere un disco. 

Quando ho cominciato ad appassionarmi all’hip hop, le donne in Italia che facevano parte del movimento si potevano contare sulle dita di una mano e forse, era proprio questo aspetto che rendeva l’hip hop ancora più sexy per me.

Sono stata tra le prime rapper donne in Italia e posso testimoniare che la cultura hip hop ha segnato la mia vita in modo profondo. Quando ho iniziato a scrivere canzoni rap, mi sentivo un’outsider e sapevo che sarei stata criticata, perché una donna che faceva musica hip hop era ancora considerata una novità.

Ho trovato consolazione e conforto nei testi dei miei artisti preferiti e ho deciso di scrivere canzoni che raccontassero la mia storia. All’inizio era difficile trovare persone che mi capissero e che apprezzassero la mia musica, ma ho continuato a perseverare.

Negli anni successivi, ho visto sempre più donne emergere come rapper e questo è stato incredibilmente emozionante per me. Vedere altre donne, forti e determinate come me, che scalavano le classifiche era un segno tangibile che le cose stavano cambiando.

Oggi, vedere altre donne che entrano nel mondo dell’hip hop mi fa sentire orgogliosa e felice. Sento che sto passando loro il testimone e le incoraggio a continuare a scrivere, creare e portare avanti questo movimento.

In ogni caso, il mio amore per l’hip hop è rimasto immutato col passare degli anni. La cultura hip hop mi ha dato la forza di combattere contro i pregiudizi e le difficoltà della vita, e mi ha fornito uno spazio in cui poter esprimere me stessa come artista e come individuo.

L’hip hop è stato una parte importante della mia vita e continuerà ad esserlo sempre. Spero che più donne si sentano libere di esprimersi attraverso la musica e che l’hip hop continui a funzionare come un canale di pace, libertà e autenticità per chiunque lo desideri. 

Dopo tanti anni, mi rendo conto che l’hip hop non è solo una passione, ma anche un vero bisogno e un’estensione di me stessa. Quando ho ascoltato il mio primo brano rap, già lo conoscevo perché sapevo che quella musica era nel mio sangue.

Moder

Se dovessi essere sincero, non saprei definire che cos’è l’hip hop…

L’insieme delle mitologiche 4 discipline: Il breaking, il djing, il writing, l’mcing? Certamente, eppure c’è molto di più….

Com’è possibile che un’invenzione degli adolescenti della fine degli anni ‘70 dello scorso secolo, nel Bronx quartiere dormitorio, difficile, povero e multiculturale, possa, dopo 50 anni, continuare a parlare la lingua dell’oggi? La lingua di un futuro in prestito, di un futuro rubato?

Un’infezione che riesce a dare un senso a chi sei.

Ricordo perfettamente quando mi ammalai: era il ‘98 e dalla bocca di Bisca (un idolo per me) uscirono una serie di rime killer: “Neffa sulla traccia, chico, senti come suona/ vengo da una zona dove l’aria non è buona”.

Li chiamavano Sangue Misto, un nome profetico.

Io ero un ragazzino senza un centro, un perdente nato, un errore di percorso. Abitavo nel centro della movida estiva, ma la morte di mio padre mi aveva tolto tutto: soldi, posizione, identità.

Quei ragazzi senza un volto cantavano di un’Italia marcia e senza futuro: raccontavano la mia realtà, parlavano di me senza conoscermi. In quegli anni turbolenti cambiai città e amici, e quelle parole erano l’unica cosa che mi rappresentava. Una sera di ottobre si presentò il destino a casa mia: il destino si chiamava “Fausto” e comparve per caso nel mio garage. Fausto era un Breaker, conosceva l’hip hop e aveva un collettivo; ascoltò paziente le mie rime scalcagnate e disse: “ ‘sta sera se ti va ti presento i miei soci”. Un dj e un rapper, Ito e Plasma si chiamavano, mi avrebbero dato le chiavi per capire cos’era questa cosa che mi bruciava la pelle. Divennero i miei fari in quegli anni scorticati, mi insegnarono tutto ciò che serviva e mi portarono dove tutto iniziò: il mio primo palco. Il posto si chiamava “Valtorto”, un centro sociale del Ravennate sgarrupato, dove al secondo piano era stato costruito un palco. Non ricordo nulla del mio primo concerto. ma ricordo ogni secondo della settimana precedente: le prove, i litigi, le tensioni…
Quel concerto era l’unica cosa che aveva senso, l’unica cosa per cui combattere.
Quel giorno mi ha regalato un nome, amici in tutta Italia, un’ossessione così bella da diventare vita.

Un ragazzino povero nella ridente e opulenta Emilia Romagna, poco più di un’ombra, aveva in mano un incendio, una rivoluzione…
Nel 2001 nessuno lo capì, ma qualche anno dopo la profezia diventò realtà, quella musica reietta era una lingua che parlava di futuro, un esperanto del mondo.

L’hip hop ha cambiato migliaia di vite, ha catturato milioni di sguardi, il tutto partendo da strade martoriate, dai cocci del ‘900.

Questa cosa è ancora qui a ricordarmi chi sono e la fotta che ci vuole a restare in piedi, perché non c’è niente di così brutale che non valga la pena raccontare, niente di così personale da tenersi dentro…

L’hip hop è la rivoluzione per cui abbiamo combattuto, l’unica risposta alla domanda che nessuno sa fare e a cui nessuno sa rispondere:
“Chi sei?”
“Sono io”.

Swelto

Correva l’anno 1998; ero al centro commerciale di Senigallia con mia mamma e mio fratello, nel reparto musica. Ricordo che acquistai la musicassetta di Nessuno degli Articolo 31; ai tempi avevo solo sentito in radio La fidanzata, e credo fosse stato proprio quel brano il mio primo contatto consapevole con quello che ancora non sapevo si chiamasse rap.

Quel nuovo stile musicale mi aveva rapito completamente, volevo saperne di più, volevo scoprire altri rappers, volevo ascoltare altra musica così, ma c’era un problema, anzi, più di uno, in realtà. Il problema più grosso era l’impossibilità di reperire materiale relativo a questo movimento in autonomia, visto che internet era ancora agli albori. Le informazioni che si trovavano on-line erano infatti poche e destrutturate, e inoltre, per via della zona desolata in cui abitavo coi miei genitori, sono stato tra gli ultimi ad aver avuto la possibilità di fare l’allaccio alla rete.

Mio cugino mi semplificò la vita, visto che già comprava Aelle Magazine e aveva un suo caro amico che si faceva i viaggi in treno fino a Bologna per comprare i primi album rap. Danilo, oltre ad avermi passato le cassettine doppiate di Odio Pieno, 950 e Dalla Sede, mi aveva anche spiegato che dietro a questo genere musicale c’è una cultura più grande, fatta di quattro discipline. In piena fase adolescenziale, anch’io mi sono sentito un soldato Hip Hop: vestivo largo, larghissimo, avevo i Baggy Jeans e cercavo disperatamente persone con la mia stessa passione.

Prima del 2000, il rap come genere musicale ha subito un sacco di violenza; non era infatti considerata musica secondo l’opinione comune, e l’idea più diffusa era che i rapper, parlando su una base, non potevano essere definiti veri cantanti. Questa cultura, nata in America, in un contesto sociale completamente diverso, è stata assorbita in maniera sbagliata in Italia, e gran parte della colpa è stata anche di coloro che, in quegli anni, hanno fatto ostruzionismo a chiunque volesse avvicinarsi a questo movimento. L’atteggiamento generale era molto ermetico, si era gelosi dell’Hip Hop e l’intero movimento è stato per anni molto chiuso verso l’esterno.

L’eccessivo purismo dell’ epoca ha individuato negli Articolo 31 e nei Sottotono i principali capri espiatori, colpevoli di aver portato musica al grande pubblico, guadagnando anche del denaro, cosa inammissibile per la mentalità dell’epoca. L’underground contro il commerciale è stato un tema caldo fino ai primi anni del 2000; era impossibile pensare di avere il rispetto dei B-boys finendo in radio, o, peggio ancora, in tv. Nel 2000, essere additati come “Sucker“, anche solo per gioco, era il peggior insulto che un B-boy potesse ricevere.

Nonostante questo clima da caserma militare, sentivo la necessità di mettermi in gioco anche io, volevo iniziare a fare beats, a registrare la mia prima canzone. Mentre internet faceva i primi passi avanti, sono riuscito a trovare un negozio di Senigallia che mi recuperò Magix Music Maker, il primo software (da sucker), che utilizzai per fare musica. Chiaramente non esistevano tutorial su Youtube, e tantomeno conoscevo persone che potessero spiegarmi come si usava il programma: c’ero soltanto io e un manuale scritto in inglese (che ai tempi non capivo). Ci misi un po’ per riuscire a combinare qualcosa, ed ebbi molte difficoltà tecniche nel registrarmi la voce, almeno prima di iscrivermi alla facoltà di Informatica Musicale a Milano, nel 2004.

Nel frattempo, avevo pubblicato i miei primi brani su Vitaminic, e tramite Hip Hop Hotboards, il primo forum che parlava di Hip Hop italiano e americano, chiesi i primi feedback sui miei lavori, che furono – giustamente – disastrosi. Erano i tempi dei primi forum e sicuramente non avevo capito lo spirito della community, ma fui preso di mira più volte da diversi utenti; ricordo ancora un certo Johnny Bravo, pioniere dell’hating online. Quella che doveva essere una cultura basata sull’aggregazione, in realtà, predicava bene, ma razzolava malissimo.

In quegli anni mi ripetevo che mai avrei applicato ostruzionismo verso chi è più inesperto di me, perché in qualche modo ho sofferto per le critiche troppo pesanti, e non sono per niente sicuro che siano state proprio loro a motivarmi a diventare chi sono oggi. Continuai a pubblicare demo, Ep, canzoni ed album in free download, e nel frattempo avevo ottenuto, dopo la pubblicazione di Piego e Svolto nel 2010, diversi ingaggi live in giro per l’Italia, con mio fratello Piaga.

Ricordo viaggi interminabili in treno, line up di 7-10 artisti in piccoli club, dove, in contesti spesso disorganizzati, ho passato le mie più belle serate, a parlare con persone che avevano la mia stessa passione. Ho cantato in tutta Italia, a volte anche senza rimborso spese, solo per conoscere altre persone come me, o semplicemente per confrontarmi con altri artisti. C’era la voglia di spaccare, di portare alta una bandiera sventolata e vista da un giro ristretto di persone, il ritorno economico non era neanche contemplato, infatti, nel mio caso, è cominciato ad arrivare dopo circa 17 anni dal mio esordio.

Personalmente ho avuto negli anni un rapporto conflittuale con l’Hip Hop. Superati i primi anni adolescenziali, ci ho sempre tenuto a sottolineare che non sono un vero MC, inteso come maestro di cerimonia, ma un rapper. La componente del messaggio è sempre stata per me la cosa più importante, così come la ricerca di uno stile personale, di una firma. Ma non sento di possedere un senso spiccato di intrattenimento, né è quest’ultima una componente che mi interessa avere e che ricerco nei miei ascolti, almeno non nell’accezione classica del termine, per cui non posso definirmi un Maestro di Cerimonia.

Nonostante ciò, l’Hip Hop rimane mio fratello, perché da lui ho imparato moltissime cose, tra cui esprimermi liberamente senza filtri, mettere in secondo piano il discorso economico, e cercare di spaccare sempre di più. Certo, né mio fratello né io siamo più gli stessi di un tempo; entrambi ci siamo evoluti in base al periodo storico ed al contesto culturale, ma ciò non significa che le nostre origini debbano essere dimenticate, e tantomeno che i nostri valori siano cambiati; a cambiare sono solo i vestiti dell’anima.

Buon compleanno, Hip Hop!

Tuasorellaminore

Quando si è adolescenti, si cerca uno stile a cui accostarsi, delle persone di un certo tipo a cui unirsi ed un genere musicale da ascoltare con cui identificarsi. Si cercano tutte queste cose per darsi un’identità, perché da piccoli non sappiamo bene chi siamo e cerchiamo dei punti fermi che ci facciano sentire di essere qualcosa. Io non ho mai capito dove mi trovassi davvero a mio agio. Sono passata dall’essere un’adolescente un po’ emo, a vestirmi con la tuta e le etnies stando in mezzo agli skaters, ascoltando l’hip hop e il freestyle di molti amici baresi che ancora oggi spacciano rime e vivono respirando musica. Sono cresciuta assaporando quello che in sordina rimaneva a galla sulla scena barese con i Pooglia Tribe (antecedentemente chiamati Zona45), con una figura storica il cui nome che aleggiava continuamente durante le mie serate mai spensierate, “DJ Argento”. Poi ho scoperto i rapper Shagoora, Tensione. Camminavo per la città e ascoltavo Il Nano. Recentemente ho riscoperto un amico di Bari e amo molto il suo modo di fare musica e la sua voce: si chiama Gotik e con lui e Mauriccio DJ ci saranno presto delle belle collab.  Quando ero piccola con l’hip hop sentivo di potermi salvare; mentre scrivevo le mie rime mi sentivo capita dall’universo, ma non mi sentivo ancora nel mio posto. Quel flow senza melodia mi stava stretto, io sono cresciuta con Bach, Mozart, Monteverdi, con le grandi opere sacre e le imponenti arie d’opera. Non potevo pensare di creare qualcosa fatta di parole, metrica, intonazione, flow, ma senza quella cantabilità che era una parte essenziale di me. Così ho provato a rendere tutte le mie barre più melodiche, più morbide, e per questo forse non sono mai stata troppo capita dal mondo hip hop, mi sono sentita emarginata, sono quasi arrivata a odiarlo. Oggi se non fai hip hop, puoi dire di fare R&B, perché in fondo sono strettamente legati; be’, per chi fa il classico R&B quello che faccio io è troppo “cattivo”. Quindi sono troppo buona per fare hip hop, e troppo cattiva per fare R&B. Continua oggi la mia corsa a dovermi identificare, come quando da adolescente mi vestivo da signorina e subito passavo dall’essere quella alternativa a essere una figlia di papà. La verità è che dentro sentivo di essere solo me: non volevo odiare l’hip hop, volevo solo amarlo a modo mio. Volevo solo potergli dare una parte di me, in modo esclusivo, volevo solo contaminarlo di cose profondamente mie, senza però essere soltanto sua. Non essere una cosa soltanto dovrebbe essere un vantaggio, un privilegio, una risorsa.

 

 

 

Viola Violi

Quando mi chiedono quale sia il mio genere preferito ne nomino di solito tre: cioè R&B, Soul e Hip Hop. Più che generi sono movimenti culturali, profondamente legati all’antichità, da un lato al jazz, al blues e dall’altro iper-contemporanei, costantemente presenti nel mercato. È forse la trasversalità il lato che amo di più, soprattutto dell’hip hop, perché, al di là di ciò che ogni tanto diventa nelle mani delle “persone sbagliate”, è un genere che quasi ti obbliga ad interessarti a tutti quei suoni che l’hanno composto, elevato, distinto.  L’hip hop è, inoltre, un orecchio attento sulla condizione della gente, è l’arte del toasting, è puro groove. Nelle mie canzoni c’è sicuramente tanto hip hop, anche se sono più incline ad intonare che a rappare, amo usare i sample, ho una SP-404 con cui mi diverto a stravolgere i brani, insomma, cerco con molta umiltà di seguire i passi di chi è stato gigante. 

Altra caratteristica dalla quale mi lascio condurre è l’improvvisazione, modalità che spesso inserisco nel procedimento di scrittura, seguendo il suono della parola senza rincorrere la rima-ad-ogni-costo: cerco di incastrare gli accenti rispettando, però, la natura del pensiero. 

Ci sono tantissime artiste che adoro, che hanno saputo cogliere, secondo me, questa trasversalità: Little Simz, Nathy Peluso, Jorja Smith, Mahalia, poi Loyle Carner e Mac Miller, un altro maestro assoluto.

Intonazione, tecnica, originalità, rispetto e cultura.

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Gigi Molinari e l’Hip Hopera Foundation

La prima espressione che ho conosciuto, di quella che avrei poi scoperto essere la Kultura Hip Hop, è il writing. O meglio: le lettere giganti e intrecciate che vedevo nascere sui muri del mio paese, sui vagoni malconci del trenino locale che mi portava a Bari e sotto i porticati delle case popolari dove abitavo a fine anni ‘80, che rendevano meno insostenibile la puzza di piscio e rassegnazione. Quelle lettere le ho ritrovate anche sulla copertina di una cassetta che ho ricevuto da un amico più grande. Disegnata con le penne multicolore che profumavano di fragola, grazie a non so quale espediente chimico, recitava Lorenzo 1992. Quel disco raccontava storie lontanissime da me, ma che mi incuriosivano e alle quali sentivo di appartenere, in qualche modo. Non ho avuto maestri che mi insegnassero come fare o cosa guardare, leggere, ascoltare, e questo mi ha regalato la libertà di sbagliare, la più alta delle concessioni. Quella che genera esperienza e senso critico, in autonomia, per quanto possibile. Col passare del tempo, però, ho maturato la necessità di conoscere persone con le quali condividere il percorso, e nel 2017 sono stato invitato a discutere di  un’idea tanto semplice quanto radicale: utilizzare i linguaggi dell’Hip Hop per creare una comunità nella quale sviluppare arte, bellezza, senso civico, economia sostenibile.

Il 7 dicembre 2018 abbiamo fondato Hip Hopera Foundation APS, un’associazione aperta a chiunque creda di potersi mettere al servizio della propria comunità per migliorarne le condizioni di vita. La musica, la pittura, la danza, il gioco sono espressioni dell’umanità e del suo significato; utilizzarle per veicolare valori di rispetto, pace, amore, uguaglianza, nel percorso formativo dei più giovani e nel dialogo con le istituzioni, significa riportare l’uomo e le sue necessità al centro delle dinamiche amministrative dei nostri territori.

In questi cinque anni abbiamo messo le esperienze pregresse al servizio di una visione, realizzando concretamente la cooperazione tra enti pubblici e privati, classe dirigente, provider culturali e formativi e noi Hoperai.


 

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Una testimonianza sulla danza hip hop (Belén Insanguine Mingarro)

Ho sempre amato l’arte in ogni suo aspetto. La mia passione per la danza è inspiegabile, un amore struggente, direi quasi viscerale, che può essere compreso solo dai veri amanti della musica. Ballare, per me, non è semplice trasporto emotivo, ma una vera e propria esigenza di espressione dell’anima attraverso il mio corpo. Quando ero solo una bambina, bastava che partisse in radio o in tv un disco pop, che diventava impossibile non seguire il ritmo e dare sfogo alla mia vena creativa. La mia più grande capacità? La memoria del corpo. Mi era sufficiente osservare una sola volta i ballerini di un videoclip, per poter ripetere perfettamente la sequenza musicale il giorno successivo.

La danza hip hop non ha schemi precisi. È libertà di forme e di espressione. Nel Sud Italia, nei primi anni 2000, i metodi di insegnamento nelle sale di danza erano ancorati a uno standard eccessivamente rigido, tipico della disciplina classica, a un approccio non rappresentativo delle mille sfumature di questo genere e limitativo della personalità di ciascun allievo. Decisi quindi di proseguire la scoperta dello stile hip hop in forma del tutto autodidatta, adeguando la danza ai miei convincimenti e al mio modo di essere.

Gli amanti della danza classica non me ne vorranno, ma lo studio della tecnica non è “l’unico ingrediente” di un danzatore. Ci sono delle doti innate, che, in una sala di danza, possono essere solo sviluppate e migliorate.  Senza senso del ritmo, creatività ed emotività, un danzatore resta un semplice esecutore di una coreografia. Credo che ballerini non si diventi, si nasca.

Il genere hip hop unisce le persone, fonde culture musicali e dà vita a qualcosa di nuovo e di unico. Nasce e si afferma come strumento di protesta nelle mani di tutti quei membri della società, che si sentivano incompresi. Una sensazione che conosco bene, soprattutto se penso alla fase adolescenziale. La Scuola Superiore di I grado “Ettore Fieramosca” di Barletta (BT) è sempre stata conosciuta per le innumerevoli attività extrascolastiche offerte agli studenti; una fra queste era il laboratorio di ballo. Questo progetto prevedeva un incontro settimanale con un esperto, al fine di realizzare uno spettacolo di danza in occasione della chiusura dell’anno scolastico. In quel contesto, ero fermamente convinta di essere “meno” degli altri. A differenza del 90% degli iscritti, non avevo alle spalle anni di studio in una scuola di danza. Quello che sapevo fare era solo frutto della mia creatività. Poi, la svolta. Eravamo quasi duecento studenti, così tanti che l’esperto responsabile del corso decise di assegnarci un compito: realizzare una coreografia e mostrarla all’incontro successivo. Scelsi Let’s Dance (Hot stuff) di Craig David e mi resi conto di essere preparata tanto quanto gli altri allievi e, forse, anche più di qualcuno. La coordinatrice del corso, nonostante ci fossero tanti altri ragazzi iscritti, notò in me qualcosa di speciale e mi affidò la creazione di una coreografia. A soli tredici anni, sulle note di Pump It dei Black Eyed Peas, realizzai una coreografia per una ventina di studenti. Ed è grazie a questa bellissima opportunità che ebbi a scoprire un’altra mia grande passione, legata alla musica: coreografare.

Sono passati oltre tredici anni da quello spettacolo, ma il ricordo è vivissimo, perché? La mia è una piccola città, e ancora oggi, a un happy hour in uno dei pochi luoghi di incontri dei giovani, piuttosto che ad una festa privata, quando parte Pump It, c’è sempre qualcuno che mi addita, sorridendo, in segno di riconoscenza, ed esegue quel famoso ritornello.

Una volta iniziati gli studi liceali, ero solita incontrarmi con i miei amici in un parco per ballare, senza uno scopo preciso, se non quello di divertirci. Con il passare del tempo, ci siamo resi conto che i risultati erano davvero interessanti. Così, grazie al sostegno della responsabile del progetto di ballo delle scuole medie, altri quattro miei compagni di studi, allora minorenni, e io, decidemmo di fondare un’associazione no profit: Nati per ballare.

Sebbene non munita di specchi, la scuola ci permetteva di usufruire della palestra, ogni sabato pomeriggio. Ancora oggi la ricordo come un’esperienza stupenda: ognuno dava il proprio contributo, insegnando ciò che sapeva agli altri, con un sistema circolare di apprendimento e di condivisione. Di lì a poco, aprimmo le porte dell’associazione a ragazzi più giovani di noi, fornendo un’opportunità di formazione a chi non poteva permettersi il pagamento della quota mensile di un’ordinaria scuola di danza. Con tanto impegno e dedizione, e grazie ai nostri contatti, riuscivamo ad organizzare incontri con giovani esponenti del settore, al fine di rendere il percorso il più istruttivo possibile. Con il passare degli anni, e divenuti maggiorenni, abbiamo iniziato a partecipare a contest e gare regionali, registrando alcune vittorie. Spesso gli organizzatori locali di eventi: tornei di calcio, mostre ed attività culturali ci chiedevano di esibirci. Era così bello scegliere le canzoni, pensare ad una storia da raccontare e poi darle vita. Ma si sa, prima o poi tutto finisce, e così è stato per la nostra associazione, che, a malincuore, abbiamo dovuto sciogliere, per ragioni di studio e di lavoro. Eppure, la passione per la danza resta, non passa mai.

Nei primi anni del mio percorso universitario, mi sentivo incompleta, alcune volte anche frustrata. Percepivo che mancasse qualcosa. Continuavo a ballare nella mia camera, da sola o in compagnia di una mia amica di vecchia data, ma non bastava. Certo, mi aiutava, anzi, mi serviva, ma poi? Sapevo che mai avrei intrapreso la carriera di ballerina, ma perché non dedicare il tempo libero alle proprie passioni? La verità è che mai mi è piaciuto esibirmi. Semplicemente, adoravo condividere il palco con i miei amici e suscitare emozioni negli altri. Ma a vent’anni la musica pop continuava a colorare le mie giornate e la voglia di creare nuove coreografie si faceva sempre più pressante. Non volevo rinunciare alla danza.

A Barletta, purtroppo, ci sono poche opportunità, e ancora meno iniziative musicali e culturali. Mai avrei pensato di diventare un’insegnante di danza; eppure, all’improvviso, un’accademia mi offrì la direzione di un nuovo progetto: un corso di hip hop per bambini. Avevo una voglia matta di tornare a danzare, ma per certi versi non mi sentivo all’altezza, non sapevo se accettare o meno. Si tende ad avere paura dei cambiamenti, ma nella vita mi sono sempre messa in gioco, e quindi, perché non provare? Prima, però, avrei dovuto seguire un breve corso di formazione abilitante all’insegnamento, con il quale venivano dati i fondamenti della didattica sportiva e le tecniche di assistenza e soccorso. E così ho fatto. Da quel momento in poi, non solo ho ripreso a danzare, ma il mio rendimento universitario, già ottimo, è migliorato ulteriormente. Ancora una volta, l’amore per il ballo mi aiutava nella ricerca del giusto equilibrio di vita.

Era il momento di mettere in pratica la mia idea di insegnamento. In una mia lezione di danza, non manca la disciplina, ma non viene sottratta la voce alle allieve. Ho sempre dato loro la possibilità, anche quando erano solo bambine, di esprimere le loro idee. La danza hip hop è composta da tantissimi stili, anche molto diversi fra loro. Non c’è limite nella scelta della traccia musicale e neanche nella creazione di un nuovo movimento. È l’unica disciplina davvero in grado di evolversi di generazione in generazione. Credo fermamente che solo la totale libertà di espressione del movimento sia l’unico veicolo di fortificazione della propria personalità. Non ho mai adottato uno standard di insegnamento uguale per tutte. Come ogni stile del genere hip hop, ogni persona è speciale, perché unica. L’essenza individuale si trasmette nella propria danza. Nessun ballerino sarà mai uguale a un altro. Ed è proprio questa la filosofia che ho adottato.

Quelle che un tempo erano solo bambine, oggi sono diventate adolescenti. Sin dal primo giorno, ho cercato di trasmettere loro il valore della musica e l’importanza del lavoro di squadra. L’hip hop mi ha donato la possibilità di fare parte del percorso di crescita di tante ragazze e di diventare un punto di riferimento, un modello da seguire, o forse, chi lo sa, da non seguire! Sicuramente non sarò una coreografa di fama mondiale, una ballerina eccellente, tantomeno un’insegnante super-titolata, ma, se continuo ad avere allieve dopo tanti anni, registrando ottimi risultati, qualcosa di speciale avrò…Dopo cinque anni, sono ancora con me e spero, finché ne avrò il tempo, di dedicarmi alla formazione di giovani ragazze per tanti anni ancora.

Viva la musica, viva l’arte!

Belén Insanguine Mingarro, 25 anni,
praticante avvocato e insegnante di hip hop

 

 
Foto principale e gallery: Hip Hop Vettori di Vecteezy
Un ringraziamento a tutti gli artisti, gli uffici stampa, gli operatori culturali e i collaboratori di Mescalina che hanno contribuito allo speciale. 

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