chi vincerà le statuette?- Corriere.it

Un gioco molto serio. Questo sono gli Oscar. Serio perché possono decidere del successo commerciale di un film o delle carriere di un regista, di un’attrice o di un attore. Cercare di indovinare a chi andranno le prestigiose statuette a due giorni dalla cerimonia è dunque un gioco nel gioco. Serissimo anche questo, se fatto da appassionati di cinema pronti a dividersi e quasi a dilaniarsi come sempre accade quando si tirano in ballo le passioni più vere. Un po’ come succede con il calcio. Paolo Baldini ed Enrico Caiano, che su queste pagine il cinema lo raccontano, si cimentano nell’impresa. A rischio smentita.

MIGLIOR FILM: PER LA PRIMA VOLTA UNA SFIDA A 10

Da sempre agli Oscar la sfida è tra cinquine di candidati. Quest’anno, edizione numero 95, forse perché il cinema arranca anche Oltreoceano e c’era il bisogno di rinvigorirlo con un’iniezione di blockbuster, i film in corsa per la statuetta più ambita sono raddoppiati: 10. Più ancora degli anni passati spicca la durata, quasi a voler sancire anche così la differenza del “cinema cinema” dalle serie tv sempre più vicine nello stile e nei contenuti ai film per grande schermo. Otto su dieci si muovono attorno alle due ore e mezza/tre ore e i due più brevi sfiorano comunque le due ore. Cominciamo dai Re Mida: Top Gun – Maverick e Avatar 2 – La via dell’acqua. Candidati sì, ma che hanno soprattutto il merito di aver rilanciato con incassi record il circo globale del cinema. Che vincano o no, il loro premio lo hanno già in tasca. Soldi, empatia, qualità: è questa la ricetta vincente per ritrovare i livelli pre-Covid. (ndr. nelle foto gallery che trovate in questo testo, i simboli delle statuette degli Oscar in rosso e in blu rappresentano le preferenze indicate dagli esperti di 7)

Sull’Oscar al miglior film, il più importante, per formulare un giusto pronostico bisogna tenere conto anche di altri indicatori: intensità visionaria, forza innovativa, profondità di temi, capacità di muovere le emozioni dello spettatore stralunato e più che mai diviso tra cinema tout court e serie tv. E alla fine il film dell’anno sarà quello che vince le statuette più importanti o quello che ne vince di più e basta? In quest’ottica, l’avventura nel Multiverso prossimo venturo di Everything Everywhere All at Once, forte di 11-nomination-11, ha dalla sua il dato numerico e una invidiata virtù: rappresenta un ponte con la porzione di pubblico più importante, i ragazzi della generazione Z. Triangle of Sadness di Ruben Östlund, Palma d’oro a Cannes 2022, è un doveroso aggancio al cinema d’autore, visionario, spacca-tabù attraverso un percorso che dai casting per le sfilate di moda passa alle vacanze dorate ai Caraibi (con naufragio) dove si confrontano un comandante ubriacone, l’oligarca filosofo re dei fertilizzanti naturali, il self made man in difficoltà con le donne, la vicecomandante kapò, la coppia di gentili vecchietti produttori di mine antiuomo.

Gli spiriti dell’isola di Martin McDonagh ha un profilo anche più alto. È un film sorprendente, fuori dagli schemi, con un’ambientazione splendente, l’Irlanda della guerra civile vista dalla costa, da un’isola sperduta. Detto per inciso, The Banshees of Inisherin (titolo originale di difficile pronuncia) avrebbe meritato il Leone d’oro a Venezia. Niente di nuovo sul fronte occidentale di Edward Berger, tratto dal più che celebre romanzo di Erich Maria Remarque, si attesta invece sullo schema di un cinema classicheggiante, poderoso, con una solida base letteraria. Realtà romanzesca ben raccontata. Però è targato Netflix e i tempi non sembrano maturi per assegnare l’Oscar più importante a un prodotto delle piattaforme digitali. Elvis di Baz Luhrmann ben rappresenta il fortunato versante dei biopic musicali, molto praticato perché molto redditizio: in questo caso si traccia la parabola umana e professionale di Elvis Presley (1935-1977) attraverso il complesso rapporto con il manager-confidente-consigliere, il colonnello Tom Parker (nel film Tom Hanks).

Women Talking – Il diritto di scegliere di Sarah Polley è un inchino dello star system al melodramma femminista in costume: un vero urlo contro il potere maschilista, potente, intenso, con Rooney Mara, Claire Foy, Jessie Buckley, Frances McDormand (anche produttore). Tár di Todd Field è costruito anzitutto per esaltare un’attrice magnifica già carica di riconoscimenti importanti, Cate Blanchett. L’autobiografico The Fabelmans è un tributo/ auto-tributo a Steven Spielberg, il regista contemporaneo di maggior peso specifico per qualità e quantità.

BALDINI: Gli spiriti dell’Isola
CAIANO: The Fabelmans

MIGLIOR REGISTA: TRADIZIONE O INNOVAZIONE?

Le opzioni sono due, con la possibile incursione dell’inglese Martin McDonagh finalmente in lizza e che ancora non ha digerito la mancata candidatura nel 2018 per il suo Tre manifesti a Ebbing, Missouri dove fu candidato per la sola sceneggiatura (il film prese due Oscar per gli interpreti, Frances McDormand e Sam Rockwell). Ancora una volta il duello pare chiaro: i ghirighori digitali di Everything Everywhere All at Once dei The Daniels, ossia Daniel Kwan e Daniel Scheinert — che mettono insieme il desiderio di avvicinare il futuro prossimo venturo, la voglia di evadere da una realtà ingrigita e immobile verso la terra dei multipli, delle dimensioni alternative, dei punti esclamativi — e l’effetto trendy: ci piace perché è di moda; la riflessione intimista di The Fabelmans, regia classica, ineccepibile di Steven Spielberg, che quasi non si nota per quanto è naturalmente perfetta. Il cinema dei The Daniels — che come racconta su 7 nell’articolo dedicato al loro film Viviana Mazza hanno passato tutto il tempo delle riprese del loro film a dire agli attori che non dovevano recitare come in un film da Oscar — ha forse bisogno di nuovi collaudi per essere considerato davvero degno di statuetta. Però si sa che qualche volta la polverosa Academy ha avuto la capacita di stupire, buttandosi in modo anche sgangherato ad intercettare lo spirito dei tempi. Insomma se l’America vuole imporre l’America al resto del mondo cinematografico potrebbe anche succedere che i Daniels la spuntino. Perché comunque qualcosa di nuovo in quel caravanserraglio di effetti speciali e mosse kung-fu sicuramente c’è.

BALDINI: Steven Spielberg
CAIANO: The Daniels (Daniel Kwan e Daniel Scheinert)

MIGLIOR ATTORE: BRENDAN FRASER O COLIN FARREL?

È senza dubbio la categoria dall’esito più incerto, perché nell’assegnare l’Oscar al miglior attore protagonista varrà anche l’equilibrio generale che i membri dell’Academy raggiungeranno nella distribuzione delle statuette. Il Colin Farrell de Gli spiriti dell’isola, metafora della follia bellica e dello scontro fratricida, meriterebbe di aggiungere altra gloria a una brillante carriera. Un ruolo molto diverso da quelli a cui ci ha abituato l’attore irlandese. Un uomo semplice, quasi un sempliciotto sprofondato nel verde di un’isola inospitale d’Irlanda negli anni Venti che suscita empatia e quasi muove a tenerezza di fronte alla violenta e folle personalità del suo antagonista Brendan Gleeson. Ma il vero favorito è Brendan Fraser, l’insegnante di comunicazione online obeso e gay di The Whale. Bisognerà capire se come nel 2018 l’Academy tornerà a premiare l’attore che si trasforma completamente, stravolgendo volto e corpo: allora la statuetta andò al Gary Oldman-Churchill de L’ora più buia.

Certo la trasformazione del belloccio Fraser di tanti film giovanilisti e di avventura nella degradata balena umana “spiaggiata” di questo film di Darren Aronofsky, potente per la sua drammatica sgradevolezza, resta impressionante come prova d’attore. Due gli outsider: Paul Mescal di Aftersun, il papà in vacanza con la sua bambina che riscopre sé stesso in quella paternità a lungo negata, e Bill Nighy, 73 anni, il candidato più anziano della cinquina, nel ruolo del funzionario londinese con bombetta di Living che trova in extremis il coraggio di essere generoso e solidale.

BALDINI: Colin Farrell
CAIANO: Brendan Fraser

MIGLIORE ATTRICE: CATE SU TUTTI

Come avete letto nel titoletto qui sopra in questa categoria davvero non c’è gara: Cate Blanchett versione padre, marito e direttore d’orchestra in Tár non ha controindicazioni. Il personaggio di Lidya Tar è una donna che fa fortuna con vizi e difetti di un uomo. Per questo cade in una crisi di identità da cui stenterà a uscire, inseguita dall’accusa di essere una predatrice sessuale: a dimostrare che di materia contemporanea si tratta. Per Blanchett sarebbe il terzo Oscar della carriera dopo la Blue Jasmine di Woody Allen nel 2014 e quello da non protagonista per The Aviator di Martin Scorsese con DiCaprio nel 2004. E forse è proprio questo l’unico particolare (statistico) che potrebbe frenare la sua corsa vittoriosa alla statuetta.

Le sfortunate outsider che in un’altra edizione avrebbero potuto competere per la statuetta sono Michelle Williams, mamma cinematografica del giovane Spielberg per The Fabelmans e, con qualche prurito moralista, Ana de Armas, sofferta Marilyn Monroe nel controverso film Blonde di Andrew Dominik (un ruolo che in un’altra occasione fu proprio di Michelle Williams, in lizza come miglior attrice nel 2012).

BALDINI: Cate Blanchett
CAIANO: Cate Blanchett

MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA
BRENDAN O BARRY: A TUTTA IRLANDA

La sfida è tutta irlandese in questa categoria. Potrebbe vincere a mani basse Brendan Gleeson, il lunatico violinista Colm de Gli spiriti dell’Isola: la dismissione dell’amicizia con Padraic, il compagno di bevute. La sua interpretazione è una perla che ricorda una lunga tradizione teatrale e cinematografica di burberi (quasi) benefici. Ma non va sottovalutato l’altro attore non protagonista candidato per lo stesso film: il trentenne Barry Keoghan che a Londra si è già aggiudicato il Bafta (ovvero l’Oscar britannico) per lo stesso ruolo e nella stessa categoria. Il suo Dominic maltrattato dal padre poliziotto, con le ingenuità di un ragazzo senza guida alla scoperta dell’universo femminile, scoperta che vive con masochistica ansia, è un personaggio che resta ancora a lungo nella mente dopo la visione del film. Tra gli altri candidati spicca un volto di caratterista hollywoodiano forse all’ultima chanche di premio: l’88enne Judd Hirsch, lo zio eccentrico del giovane Steven nel capolavoro di Spielberg.

BALDINI: Brendan Gleeson
CAIANO: Barry Keoghan

MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA
SORELLA KERRY O CURTIS BUROCRATE

Nel campo della migliore interpretazione femminile come non protagonista le migliori chance sono quelle di un’irresistibile Jamie Lee Curtis per Everything Everywhere All at Once, in cui interpreta l’agente delle entrate che dà l’avvio alla storia. Ben lontana dalla madre vendicatrice dell’horror Halloween Ends, è semmai molto più simile in qualche modo al ruolo di ragazza folle e stralunata che ce la fece amare in Una poltrona per due di John Landis. La sofferenza silenziosa di Kerry Condon, sorella di Farrell ne Gli spiriti dell’Isola potrebbe però spuntarla su Curtis nel caso di una scelta più classica dell’Academy. In subordine, Angela Bassett versione supereroina per Black Panther – Wakanda Forever.

BALDINI: Kerry Condon
CAIANO: Jamie Lee Curtis

MIGLIOR FILM STRANIERO:
BELGIO O IRLANDA

Quanto al miglior film internazionale, oltre al didascalico ma un po’ retrò Argentina, 1985, il testa a testa è tra due opere davvero eccellenti che trattano i drammi infantili, il belga Close di Lukas Dhont e l’irlandese The Quiet Girl di Colm Bairéad. Il cinema europeo qui può davvero battere un colpo in terra hollywoodiana. Close parla dei condizionamenti sociali, dell’amicizia tradita, della difficoltà di crescere, della possibilità di perdersi, del ruolo dei genitori e della scuola. E lo fa con una grazia di racconto e una capacità di coinvolgimento dello spettatore davvero rari. Il regista è il trentunenne Lukas Dhont, giovane rivelazione con l’altrettanto riuscito Girl del 2008. The Quiet Girl racconta, in lingua gaelica, una favola rurale su un’adolescente infelice e una famiglia naturale disfunzionale che si sovrappone a una famiglia di fatto provata dal dolore. E qui i due esperti che vi hanno accompagnato in questa carrellata sono davvero in difficoltà a scegliere. Abbiamo deciso di “adottarne” uno ciascuno. Niente in questo caso vale come il desueto augurio: vinca il migliore (a meno che non venga recuperato qui come contentino a Netflix, vista la coproduzione tedesca, il corretto ma poco di più Niente di nuovo sul fronte occidentale che corre, anche se con poche possibilità, nella categoria maggiore del miglior film).

BALDINI: The Quiet Girl
CAIANO: Close

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